domenica 14 dicembre 2008

dott. Marcello GHILARDI - (Università di Padova)

ESTETICA E ARCHITETTURA GIAPPONESE
martedì 16 dicembre ore 14.30

lunedì 1 dicembre 2008

prof. G. DEROSSI - Mercoledì 3 dicembre - "La svolta linguistica"

prof. Giorgio Derossi (professore ordinario di Filosofia teoretica, Dipartimento di Filosofia, Università di Trieste)

"La svolta linguistica"

domenica 30 novembre 2008

Massimo Donà - Mercoledì 10 dicembre

Dalla cosa all'opera: L'APORIA DEL FONDAMENTO
Ore 10.30

giovedì 13 novembre 2008

dott. Luca Grion (Docente di Filosofia morale Università di Udine): "Introduzione al pensiero di Emanuele Severino"

Mercoledì 26 novembre

dott. Marcello BARISON (Phd SUN): "Heidegger: Costruire abitare pensare"

Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare in Saggi e discorsi, Mursia Editore, Milano 1991.
martedì 25 novembre 

DOTT.SSA SILVIA CAPODIVACCA: Un’illusione necessaria. La soluzione estetica di Friedrich Nietzsche

Primo passaggio: dal «mondo vero» al mondo apparente
Come Nietzsche destituisce il valore associato a ciò che comunemente è inteso come veritiero e come procede verso la valorizzazione dell’illusione e dell’apparenza
⋅ «Che cos’è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete»
F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III/2, p. 361.
⋅ «Che la verità abbia maggior valore dell’apparenza, non è nulla più che un pregiudizio morale; è perfino l’ammissione peggio dimostrata che ci sia al mondo. Si voglia dunque confessare a se stessi quanto segue: che non ci sarebbe assolutamente vita, se non sulla base di valutazioni e di illusioni prospettiche; e se si volesse con il virtuoso entusiasmo e la balordaggine di alcuni filosofi togliere completamente di mezzo il “mondo apparente”, ebbene, posto che voi possiate far questo, – anche della vostra “verità”, almeno in questo caso, non rimarrebbe più nulla!»
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, vol. VI/2, aforisma n. 34, p. 42.

Secondo passaggio: dal mondo apparente all’arte. Un appello
Perché Nietzsche si rivolge agli artisti e cosa intende imparare dal loro modo di rapportarsi con la realtà fenomenica
⋅ «Ciò che si deve imparare dagli artisti. Quanti mezzi abbiamo per fare belle, attraenti, desiderabili le cose, quando non sono tali? Io penso che in sé esse non lo siano mai. A questo punto, i medici hanno qualcosa da insegnarci, quando per esempio diluiscono l’amaro oppure mescolano vino e zucchero nei recipienti delle loro misture; ma ancor più hanno qualcosa da insegnarci gli artisti, che in realtà son di continuo intenti ad escogitare invenzioni e giuochi di prestigio di questo genere; ad allontanarsi dalle cose, finché molto di esse non lo si vede più e molto invece si deve aggiungere con i nostri occhi per vederle ancora – oppure a vedere le cose di lato e come in uno scorcio – o a disporle in modo che in parte restino dissimulate e offrano soltanto la possibilità d’intravederle in prospettiva – ovvero a contemplarle attraverso un vetro colorato o alla luce del tramonto – o a dar loro una superficie e un’epidermide che non abbia una piena trasparenza: tutto questo dobbiamo imparare dagli artisti, e per il resto essere più saggi di loro. In essi, infatti, questa loro sottile forza cessa di solito, laddove cessa l’arte e comincia la vita; noi, invece, vogliamo essere i poeti della nostra vita e in primo luogo nelle cose minime e più quotidiane»
F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, vol. V/2, aforisma n. 299, p. 174. 

Ebbrezza e bellezza: il grande stile dell’arte
⋅ «Il grande stile nasce quando il bello riporta la vittoria sul mostruoso»
F. Nietzsche, Umano troppo umano. Secondo volume, in Opere, vol. IV/3, sezione Il viandante e la sua ombra, aforisma n. 96, p. 181.
⋅ «Il senso supremo della potenza e della sicurezza prende espressione in tutto ciò che ha grande stile. La potenza che non ha più bisogno di dimostrazione: che disdegna di piacere; che difficilmente dà una risposta; che non si sente circondata da testimoni; che, senza averne coscienza, vive del fatto che esista una contraddizione contro di essa; che riposa in se stessa, fatalisticamente, una legge tra le leggi: questo parla di sé nella forma del grande stile. –»
F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa con il martello, in Opere, vol. VI/3, sezione Scorribande di un inattuale, aforisma n. 11, p. 115.

Dall’estetica all’ontologia: volontà di potenza come arte
Se la positività dell’arte consiste nella sua capacità di instaurare un rapporto nei confronti dell’illusione, il suo limite si rivela nel momento in cui resta intrappolata nelle maglie dell’estetica. La volontà di potenza è ciò in forza di cui si la l’arte viene vivificata e al contempo la vita diviene opera d’arte
⋅ «L’arte vale più della verità»
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, vol. VIII/3, p. 289.
⋅ «Ogni arte loda, magnifica, enuclea, trasfigura – rafforza certi valori: si dovrebbe poter prender ciò solo come un accessorio, come una causalità dell’azione? Oppure ciò sta già alla base della “capacità” dell’artista? L’affetto dell’artista si riferisce all’arte stessa? O non piuttosto alla vita? [...] L’artista comunica soprattutto il suo stato in relazione a queste cose terribili della vita: questo stato stesso [...] chi l’ha vissuto lo tiene in altissimo onore e lo comunica, sempreché sia un essere comunicativo, ossia un artista. Il coraggio di fronte a un possente nemico, a una sublime avversità, a un crudele problema – esso stesso è lo stato superiore della vita che ogni arte della sublimità magnifica»
F. Nietzsche, La volontà di potenza, ed. a cura di G. Brianese, pp. 132-133.

Mercoledì 19 NOVEMBRE - aula B - Luigi Perissinotto: Dal bello al corretto

domenica 2 novembre 2008

Oggetto: sospensione delle lezioni – mercoledì 05 novembre 2008 – dalle ore 10.30 alle ore 14.30

Su richiesta del Magnifico Rettore e come concordato dal Senato Accademico del 29 ottobre 2008, il Preside sospende le lezioni della 2° e 3° fascia di tutti i Corsi di Studio della Facoltà di Ingegneria (Udine e Pordenone).

tale sospensione è richiesta per consentire la partecipazione del personale e degli studenti all'Assemblea Generale indetta dal Magnifico Rettore.

lunedì 27 ottobre 2008

prof. L. Perissinotto (Università di Venezia): «Dal bello al corretto: il giudizio estetico in Wittgenstein»

Mercoledì 19 NOVEMBRE
prof. L. Perissinotto (Università di Venezia): «Dal bello al corretto: il giudizio estetico in Wittgenstein»

10.30-12.30

Luigi Perissinotto è professore ordinario di Filosofia del Linguaggio presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Nella stessa Università coordina il Master universitario di II livello in Consulenza filosofica.
Presso l'editore Mimesis di Milano dirige la collana di studi filosofici "La scala e l'album". E' autore di alcuni volumi e di diversi saggi. Sui temi oggetto delle lezioni di particolare interesse: "Wittgenstein. Una guida", Feltrinelli, Milano 2004 (IV ristampa) e "Le vie dell'interpretazione nella filosofia contemporanea", Laterza, Roma-Bari 2002

Video intervista a Luigi Perissinotto:
http://www.associazioneasia.it/adon.pl?act=doc&doc=539

M. HEIDEGGER



28 OTTOBRE
LISA PIZZIGHELLA (PHD, Dipartimento di filosofia, Università di Venezia),
"INTRODUZIONE ALL'ORIGINE DELL'OPERA D'ARTE DI M. HEIDEGGER"

lunedì 20 ottobre 2008

Oggetto: sospensione delle lezioni – mercoledì 29 ottobre 2008 – dalle ore 10.00 alle ore 14.30

Si informa che il 29 ottobre 2008, in aula “L”, con inizio alle ore 10.00, ci sarà un convegno di architettura rivolto a tutti gli studenti della Laurea in Scienze dell’Architettura e della Laurea Specialistica in Architettura e pertanto le sotto indicate lezioni sono sospese a partire dalle ore 10.00 e sino alle ore 14.30:

Oggetto: sospensione delle lezioni – mercoledì 22 ottobre 2008

Si informa che il 22 ottobre 2008, in aula “L”, ci sarà il PRELUDUIM di Architettura e pertanto tutte le lezioni del Corso di Laurea in Scienze dell’Architettura e del Corso di Laurea Specialistica in Architettura sono sospese.

giovedì 16 ottobre 2008

ALESSANDRO BERTINETTO (Università di Udine) - Estetica e idealismo

Martedì 21 ottobre A. Bertinetto (docente di Estetica, Università di Udine) in riferimento alla parte generale del corso:
"L'architettura, arte simbolica di G.W.F. HEGEL" in Estetica e architettura (A cura di E. Rocca) pp. 61-87
Autore di:
- 2008 Lineamenti di storia dell'estetica. La filosofia dell'arte da Kant al XXI secolo
Vercellone Federico; Bertinetto Alessandro; Garelli Gianluca, 2008, Il Mulino
- 2003 Storia dell'estetica moderna e contemporanea
Vercellone Federico; Bertinetto Alessandro; Garelli Gianluca, 2003, Il Mulino
- 1998 Autocoscienza e soggettività nel pensiero di Manfred Frank
Bertinetto Alessandro, 1998, Zamorani

martedì 14 ottobre 2008

Nietzsche: "L'arte come volontà di potenza"

11 NOVEMBRE
dott.ssa Silvia Capodivacca (Phd Dipartimento di filosofia, Università di Padova): "Arte come volontà di potenza"

Commenterà i capitoli della parte generale del corso:
- L'architettura come volontà di potenza, di F. Nietzsche pp. 101-111, "Estetica e architettura" (a cura di) E. Rocca:
- L'abitare nomadico, di M. Cacciari pp. 251-261, "Estetica e architettura" (a cura di) E. Rocca.




EMANUELE SEVERINO

martedì 7 ottobre 2008

1964: Andy Warhol Foundation for the Visual Arts/ARS, New York

Raoul Kirchmayr

Mercoledì 15 ottobre

PRESENTA IL TESTO IN ESAME: Merleau-Ponty. Una sintesi
Kirchmayr Raoul, 2008, Marinotti

Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) è stato uno dei maìtre à penser che con la sua riflessione critica ha segnato il panorama della filosofia del XX secolo. Fondatore con Jean-Paul Sartre della prestigiosa rivista Les Temps Modernes, professore alla Sorbona prima e al College de France poi, Merleau-Ponty ha sviluppato un'originale interpretazione della fenomenologia che lo ha condotto ad approfondire il rapporto tra il pensiero filosofico e la scienza, l'arte e la letteratura, il marxismo e la psicoanalisi fino al limite di una "nuova ontologia" cui stava lavorando prima della morte prematura. La sua opera sfaccettata e aperta, in dialogo continuo con gli aspetti più vivi della cultura contemporanea, frammentaria eppure rigorosa e coerente - richiede di essere esplorata con uno sguardo nuovo.

- Mercoledì 8 ottobre dott. D. CANTONE (docente di Estetica, Dipartimento di Architettura, Università di Trieste), La Critica del Giudizio di Kant

in riferimento alla parte generale del corso:
"Il giudizio di gusto sull'architettura" in Estetica e architettura (A cura di E. Rocca) pp. 29-43

- "Introduzione a Heidegger" dott.ssa LISA PIZZIGHELLA (Phd, Dipartimento di Filosofia di Venezia)

martedì 30 settembre 2008

PROGRAMMA D'ESAME

DESCRIZIONE 
Ne L’occhio e lo spirito il filosofo francese M. Merleau-Ponty scrive che «la scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle», il corso prende avvio da questa affermazione e da due parole in particolare: «abitare» e «cosa». Il progresso scientifico e tecnologico ha profondamente mutato il nostro modo di considerare e utilizzare le cose; la fenomenologia segna, fin dagli esordi con la riflessione husserliana, un tentativo di recupero delle «cose stesse»: tale ritorno diventerà il motto del movimento fenomenologico.
La prima parte del corso intende problematizzare la nozione di «cosa», analizzando una serie di questioni legate alla percezione visiva, attraverso l’utilizzo di esempi in grado di evidenziare i problemi che scaturiscono dal rapporto tra percezione e pensiero. Affronteremo diversi nodi problematici connessi all’apparire della cosa, alla sua raffigurazione e alla possibilità di poterne dubitare. Descriveremo il metodo della fenomenologia della percezione per applicarlo prima, in risposta allo scetticismo, al problema della percezione del mondo esterno e poi alla sua rappresentazione. Prenderemo in esame la fenomenologia della percezione confrontandola con la Psicologia della forma (Gestaltpsychologie) nei suoi più recenti sviluppi, discutendone le implicazioni teoretiche ed epistemologiche. L’approccio gestaltistico al problema della percezione visiva verrà ulteriormente esaminato attraverso le analisi di L. Wittgenstein: in particolare saranno evidenziate e discusse le nozioni di «esperienza immediata», «somiglianza» e di «vedere come». Chiarito il senso della percezione, esso sarà posto in relazione alla nozione d’«opera d’arte»: seguendo in particolare le riflessioni di Merleau-Ponty e di Heidegger evidenzieremo le implicazioni teoriche che il senso primordiale della percezione pone rispetto alle cose, al pensiero, all’abitare e alla produzione dell’opera d’arte. La relazione tra la cosa e la produzione artistica sarà ulteriormente approfondita attraverso la riflessione sulla tecnica sviluppata da E. Severino.
Il passaggio dalla «cosa» all’«opera d’arte» sarà analizzato in particolare attraverso la discussione di due testi rappresentativi di due diversi approcci all’estetica: da un lato, sul versante fenomenologico-ermeneutico, L’origine dell’opera d’arte di M. Heidegger, dall’altro, sul versante analitico, sarà preso in esame il testo La trasfigurazione del banale di A. C. Danto. L’ultima parte del corso intende sviluppare e analizzare l’apporto che l’estetica analitica, a partire da I linguaggi dell’arte di N. Goodman, ha fornito su tali problemi.

PARTE GENERALE 
L’antologia a cura di E. Rocca, Estetica e architettura, il Mulino, Bologna 2008 non è obbligatoria per i frequentanti del corso. La parte generale sarà affrontata con il contributo di ospiti esterni specialisti dei problemi e degli autori legati all’estetica, attraverso la discussione critica di alcuni saggi tratti dal testo antologico. Sono stati invitati a intervenire: dott. M. Barison (Phd, Università di Napoli) / dott. A. Bertinetto (Università di Udine) / R. Calligaro (Artista) / dott. D. Cantone (Università di Trieste) / dott.ssa S. Capodivacca (Phd, Università di Padova) / prof. G. Derossi (Università di Trieste) / prof. M. Donà (Università di Milano) / dott. M. Ghirardi (Università di Padova) / dott. M. Losito (Università di Trieste) / prof. L. Perissinotto (Università di Venezia) / dott.ssa L. Pizzighella (Phd, Università di Venezia) / prof. Arch. R. Rizzi (Università di Venezia) / prof. F. Vercellone (Università di Udine) / prof. V. Vitiello (Università di Salerno).
La parte generale ha lo scopo di fornire le basi per comprendere il quadro complessivo dell’estetica e per offrire la possibilità di approfondire alcuni aspetti specifici ascoltando la voce e l’opinione di diversi studiosi ed esperti.

L’ESAME 
È possibile scegliere uno dei quattro percorsi sotto elencati. Unicamente per i non frequentanti è obbligatorio il testo: E. Rocca, (a cura di), Estetica e architettura, il Mulino, Bologna 2008. Per ciascun programma è possibile sostituire uno qualunque dei tre testi d’esame con uno dei libri menzionati tra i testi di supporto e approfondimento.
Per gli studenti che non posseggono alcuna conoscenza di storia della filosofia si consiglia di scegliere il terzo oppure il quarto programma poiché non richiedono presupposti storico-filosofici.
Il programma d’esame è stato concepito in termini modulari in modo da offrire allo studente sia uno sguardo di insieme, sviluppato durante il corso, che, ai fini di sostenere l’esame, la possibilità di approfondire gli aspetti di maggiore interesse del candidato.

Programma d’esame n. 1
1. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989.
2. R. Kirchmayr, Merleau-Ponty. Una sintesi, Marinotti, Milano 2008.
3. E. Severino, Una tesi capitale di Husserl, in Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano 1984, pp. 63-68.
Parte generale: E. Rocca, (a cura di), Estetica e architettura, il Mulino, Bologna 2008.

Testi di supporto e approfondimento (facoltativi) 
- M. Merleau-Ponty, La cosa e il mondo, in Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, pp. 393-449. Oppure, E. Severino, L’identità della follia, Rizzoli, Milano 2007.
- V. Costa, P. Spinicci, E. Franzini, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002. Oppure, R. Barbaras, La percezione, Mimesis, Milano-Udine 1994.
- E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1994, (Introduzione, prima e seconda meditazione) pp. 37-83.


Programma d’esame n. 2 
1. E. Severino, Tecnica e architettura, Raffaello Cortina, Milano 2003.
2. M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1990, pp. 3-69.
3. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari 2008.
Parte generale: E. Rocca, (a cura di), Estetica e architettura, il Mulino, Bologna 2008.

Testi di supporto e approfondimento (facoltativi)
- F. Volpi (a cura di), Heidegger, Laterza, Roma-Bari 1997, cap. V e VI.
- G. Agamben, L’uomo senza qualità, Quodlibet, Macerata 1994.
- M. Cacciari, M. Donà, R. Gasparotti, Le forme del fare, Liguori 1987, cap. II, pp. 47-75.


Programma d’esame n. 3
1. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, II parte, pp. 229-301.
2. A. C. Danto, La storicità dell’occhio, Armando, Roma 2007.
3. A. C. Danto, La trasfigurazione del banale, Laterza, Roma-Bari 2008.
Parte generale: E. Rocca, (a cura di), Estetica e architettura, il Mulino, Bologna 2008.

Testi di supporto e approfondimento (facoltativi)
- P. Bozzi, Unità identità causalità, Cappelli, Bologna 1969, cap. 1, pp. 21-145. P. Bozzi, Vedere come, Guerini, Milano 1998.
- L. Perissinotto, Wittgenstein. Una guida. Feltrinelli Milano 1997. Oppure, L. V. Distasio, Estetica e differenza in Wittgenstein, Carocci, Milano 1999.
-. M. Sambin, L. Marcato, Percezione e architettura, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999. Oppure, R. Arnheim, La dinamica della forma architettonica, Feltrinelli, Milano 1991.


Programma d’esame n. 4
1. N. Goodman, I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 1961.
2. S. Chiodo, Che cos’è arte, Utet, Torino 2007, Parte prima.
3. N. Warburton, La questione dell’arte, Einaudi, Torino 2008.
Parte generale: E. Rocca, (a cura di), Estetica e architettura, il Mulino, Bologna 2008.

Testi di supporto e approfondimento (facoltativi)
- P. Spinicci, Simile alle ombre e al sogno, Boringhieri, Torino 2008.
- P. D’Angelo, Introduzione all’estetica analitica, Laterza, Roma-Bari 2008.
- E. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino 1965, parte prima, pp. 39-115.

Jorge Luis Borges

Magritte I due misteri (1966)

domenica 28 settembre 2008

Renato Calligaro

Dalla cosa all'opera: "TEMPO FERMO" / Mercoledì ore 15.30 - Aula 36

Seminario di Filosofia dell'architettura


Renato Calligaro - Dalla cosa all'opera: "TEMPO FERMO" / Mercoledì ore 15.30 - Aula 36

Chi è Renato Calligaro?

Nato a Buja (Udine, Italia) il 28/1/1928, trascorre l'infanzia alternando permanenze in Italia e in Argentina. Dopo l'esperienza della guerra, vissuta in Friuli, approda di nuovo a Buenos Aires nel 1946, e vi frequenta la Facoltà di Architettura. Pittore e scrittore fin da ragazzo, Calligaro ha nella pittura il suo linguaggio privilegiato, anche se la componente letteraria, o meglio mitico/narrativa, vi interferisce fin da principio, in un iter complesso e stimolante. A questa pressione della narratività si deve l'appassionato studio della pittura del trecento e quattrocento italiani prima, e del realismo magico della letteratura latinoamericana poi.
In Calligaro si sono incrociate le istanze della cultura esistenzialista, vissuta nel dopoguerra della Parigi del Sudamerica (Buenos Aires), la dimensione mitica del Continente americano e la condizione di "straniero". L'essere "straniero" rimane la cifra di Calligaro: straniero in America come europeo, straniero in Italia come americano, straniero in pittura come scrittore, straniero nei fumetti come pittore: condizione esistenziale di "straniamento" propria di un poeta che riesce a guardare la realtà sempre con occhi stupiti, non prigionieri della razionalità imperante. Un vissuto "esistenzialista" che nell'ambito dell'arte trova il suo stile nella "mancanza di unità di stile", l'unità di stile essendo considerata da un "artista modernista" nella contemporaneità postmodernista una limitazione e una "falsità", in quanto espressione di solo una parte della personalità, nel processo di ricerca di identità di tutti gli "io" possibili.
All'inizio degli anni sessanta Calligaro recupera nella pittura la "narratività", non come illustrazione, ma in sequenze di forme inventate (astratte o rappresentative, simboliche o realiste, materiche o di collage, ecc.) che si sviluppano l'una dall'altra formando il "racconto". Quello dei quadri/sequenza (di solito di cm. 242 x 60) è il modo più comune delle sue opere pittoriche. Nel ritorno alle origini, al mythos ("In principio era la narrazione"), Calligaro cerca un fondamento possibile per superare l'incombente relativismo e il suo corollario di morte dell'arte.
Nel 1967 Calligaro inizia, per motivi politici, l'esperienza del fumetto di satira. Il linguaggio fumetto, con la sua specifica narratività, affascina l'autore, che lo considera però una "macchina" dalle possibilità trascurate, in quanto utilizzato solo nel procedimento tradizionalista come massmedium, e quasi mai come possibile opera d'arte innovativa nel procedimento modernista. Comincia così l'esperienza del fumetto impropriamente chiamato "d'avanguardia", in cui l'autore introduce le problematiche formali della letteratura e della pittura del Novecento. Sono frutto di tale esperienza oltre il fumetto i "poemi" di testo e figure (Montagne, Casanova, Oltreporto, Deserto, Lirica 4, Zeppelin, Poema Barocco) dove viene creata una nuova dialettica nuova fra testo e immagine (un nuovo linguaggio, secondo Dorfles), per cui, nella libertà dagli obblighi della descrittività tradizionale del massmedium (il fumetto entra nel territorio dell'arte del Modernismo), il racconto si sviluppa in figure dal testo, ma anche in testo dalle figure. Questa dialettica paritaria fra i due linguaggi dà luogo a sviluppi di narratività imprevedibili (l'imprevedibilità essendo la vera cifra della ricerca dell'Altro come Linguaggio), nella assoluta libertà di invenzioni stilistiche diverse sia pittoriche che letterarie (dove la polivalenza delle tecniche e degli stili diventa la vera "storia" da raccontare, come "avventura" del Linguaggio).
Nell'ambito degli studi di teoria dell'arte, Calligaro afferma una sua ipotesi di psicogenesi del sistema antropologico dell'arte come "Tempo fermo" e, separando l'esteticità dalla artisticità, perviene a una sistemazione delle arti contemporanee in quattro procedimenti (tradizionalista, modernista, avanguardista e postmodernista), dove va nettamente evidenziata la differenza fra Modernismo e Avanguardismo. Ha fondato e dirige un sementrale di psicologia, fenomenologia e antropologia dell'arte dal titolo "TempoFermo", uscito nel 2003 per i tipi di Campanotto Editore. Come teorico partecipa a convegni e lezioni universitarie. 
Calligaro è vissuto a lungo in America Latina (specialmente in Argentina e Brasile) a Roma, a Milano e in Friuli. Il suo immaginario, fondato sulla cultura classica europea, si è arricchito nella esperienza sudamericana di una dimensione mitica. Considera fondamentali nel suo iter creativo le esperienze multimediali: grafica pura, illustrazione pubblicitaria e editoriale, fumetto, pittura, letteratura e infine video. L'ultimo video, dal titolo "Le streghe di Germania", è una libera interpretazione di una favola friulana. In esso Calligaro crea testi, disegni, pitture che fonde alle riprese dal vero (per la musica si avvale della collaborazione di altri): nella fase del montaggio interviene lo specifico elettronico per l'ulteriore invenzione e deformazione artistica del materiale (O. Tassan).
Collaborazioni a periodici con vignette di satira e illustrazioni: Confronto, ABC, Linus, Alterlinus, Arcibraccio, Panorama, Espresso, La Repubblica (Satiricon), Vie Nuove, Manifesto, Lotta Continua, Reporter, Le Monde…. Libri: "Rosso e no", ed. Savelli 1972, "Cambia o non cambia" , Feltrinelli 1975, "Ridateci il nemico!", Feltrinelli 1977, "Il meglio di Donna Celeste", Rizzoli 1992.



Introduzione al pensiero di Renato Calligaro

[Pittore e scrittore, grafico, fumettista e vignettista di satira politica. Ha collaborato a vari periodici fra cui Linus, ABC, l'Espresso, Panorama, Reporter, La Repubblica, Il Manifesto, Tango, Cuore, Le Monde. Ha pubblicato, tra gli altri, i libri "Rosso e no", "Cambia, non cambia", "Ridateci il nemico" (Feltrinelli) e "Il meglio di Donna Celeste" (Rizzoli); i poemi illustrati "Montagne", "Henriette/Casanova", "Oltreporto", "Deserto", "Lirica 4", "Zeppelin", "Poema Barocco"; i video "Deserto" e "Le streghe di Germania". Ha collaborato con articoli e saggi, tra gli altri, a Alfabeta, Linus, Grafica e Disegno, Les cahiers de la bande dessinée".]

Non è vero che “é arte ciò che gli uomini chiamano arte”.

Senza le arti la psiche umana rimarrebbe nuda davanti alla propria estinzione. ....In questo senso immensamente significante, le arti sono ancora più indispensabili agli esseri umani della scienza e della tecnologia più eccelse (di cui innumerevoli società hanno fatto a meno per lungo tempo”). (1)

Si intende qui per “procedimento” il modo di produrre dell’Autore, direttamente determinato dalla funzione prima che egli, consciamente o inconsciamente, riconosce alla operazione tradizionalmente definita “arte”: in altre parole dal suo atteggiamento come persona nei suoi confronti.

In verità, durante i circa 40.000 anni di storia della operazione arte, dalle origini fino alla metà dell’800, c’è stato un unico procedimento, quello che qui si definisce procedimento tradizionalista, e che pertanto coincide con il sistema antropologico dell’arte. Solo dalla seconda metà dell’800 si sono inventate procedure differenti, come risposta a una crisi epocale della cultura occidentale, come risposta a interrogativi radicali sul perché e sul come della operazione arte.

Sono nuovi il procedimento modernista, il procedimento avanguardista, e, dal secondo dopoguerra, il procedimento postmodernista.

I procedimenti sono dunque quattro:

1. Il procedimento tradizionalista è quello dell’arte storica da circa 40.000 anni. La funzione prima di questa operazione è quella di donare all’uomo una esperienza esistenziale (che noi oggi chiamiamo della compiutezza, della riuscita artistica dell’opera) che è il soddisfacimento di un suo bisogno fondamentale (referente antropologico), e che è quindi costitutiva dell’homo sapiens sapiens. Il procedimento tradizionalista opera pertanto all’interno del sistema antropologico dell’arte (e coincide di fatto con esso), dove il protagonista della operazione è la riuscita artistica dell’opera. L’Autore è strumento di questa riuscita. Il nuovo è dato solo dalla originalità dell’Autore, ed è quindi, anche se non voluto o cercato, ineluttabile nonostante le resistenze opposte dalle ideologie storiche tradizionaliste.

2. Il procedimento modernista appartiene anch’esso al sistema antropologico dell’arte, in quanto anche qui la funzione prima della operazione è la riuscita artistica dell’opera. Ma qui il nuovo è invece voluto e cercato, e investe, come innovazione del Linguaggio, i differenti modi di formare. Il protagonista della operazione rimane comunque la riuscita artistica dell’opera. Il marchio di questo procedimento è la proposizione di Baudelaire del 1860: “La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile”.2

3. Il procedimento avanguardista propriamente detto trascina invece l’operazione arte del tutto fuori dalla “immutabilità” e “eternità” del sistema antropologico dell’arte, e invece all’interno della dialettica razionalista e sociologica del progresso. Infatti qui la funzione prima dell’operazione non è più quella di procurare all’uomo l’esperienza esistenziale della artisticità, ma, come strumento privilegiato per la sua emancipazione, quella di indurlo alla rivoluzione estetico/sociale. Il protagonista della operazione non è allora più la riuscita artistica dell’opera, ma la riuscita estetica dell’Autore (società). Nel suo progredire l’arte deve tendere a coincidere con la vita (Autore/società), annullando ogni distanza originaria tra arte e vita. Come strumento della rivoluzione, l’operazione arte deve dunque progredire (e quindi in extremis negarsi, in quanto ogni progresso ha una fine, anche quello della scienza), essere sempre all’”avanguardia” per quel fine (a prescindere dalla qualità artistica dell’opera). Il nuovo diventa un valore per se stesso: il valore di novità subentra al valore di artisticità.

4. L'identificazione, all'interno della Postmodernità, che già per se stessa è difficile da definire, di un procedimento postmodernista dell'arte è possibile, ma solo tenendo presenti le approssimazioni inevitabili nella sistemazione di un fenomeno in corso. Molto sinteticamente, si può dire che esso pretende di conciliare la "dialettica del nuovo" con il consumismo di massa (il "nuovo per il sempreuguale" del mercato). Mentre i procedimenti tradizionalista e modernista pretendono di produrre oggetti artistici (opere d'arte) e il procedimento avanguardista pretende di abolire tali oggetti (in quanto irrimediabilmente oggetti del mercato) in una estetizzazione della società, il procedimento postmodernista recupera la produzione di oggetti, ma non si preoccupa che essi siano artistici, in quanto lo stesso concetto di artisticità è ormai irrilevante. Potrebbero anche essere artistici, ma ciò è ininfluente rispetto alla produzione di oggetti che devono essere anzitutto oggetti estetici testimoniali della esteticità dell'autore, diffusi nella società proprio attraverso il mercato, inteso ora come mezzo privilegiato della comunicazione di esteticità.


1. Il procedimento tradizionalista

Il procedimento tradizionalista non è dunque altro che il modo unico in cui il sistema antropologico dell’arte si è oggettivato nella storia (unico fino quasi alla fine dell’800). Per cui, prima di passare ad analizzare le caratteristiche che lo differenziano dal procedimento modernista, è opportuno riassumere cosa si intenda qui per arte come qualità di artisticità dell’opera (arte del sistema antropologico, in opposizione all’arte come istituzione), tema svolto nel primo numero di questa rivista, nel testo “Tempo fermo”.

Da quel testo si possono ricavare sinteticamente, fra altre, alcune proposizioni:

1. L’opera d’arte è sempre una narrazione, non può non essere una narrazione, in quanto è prodotta partendo dalla “intenzione di dire” qualcosa, un significato, da parte dell’Autore (anche l’antico concetto di mimesis si risolve in quello di narrazione).

2. Ogni narrazione qualsiasi (nei linguaggi specifici fin’ora usati dall’uomo: parola detta e cantata, il mimo, la musica, la danza, la pittura, la scultura, l’architettura, la letteratura, il teatro, il cinema, il fumetto, gli ibridi contemporanei, ecc.), se l’Autore pretende di farne un’opera d’arte, deve essere sottoposta a un processo di formazione, che, se è riuscito, la fa diventare una narrazione opera d’arte.

3. L’opera d’arte è una narrazione dove il significato coincide con la forma = il significato è la forma (definizione strutturale).

4. L’opera d’arte è “tempo fermo”: se nella psiche il significato è sentito come tempo (che va), e la forma è sentita come spazio/eternità (che sta), la riuscita artistica è tempo = spazio/eternità: tempo fermo (definizione psicologica).

5. L’opera d’arte concilia dunque nel pensiero simbolico, come simbolo sintetico produttivo, la contraddizione inconciliabile nel pensiero razionale fra il tempo (che va) e il suo contrario eternità (che sta) (definizione antropologica).

6. L’artistico appartiene al pensiero simbolico, e non al pensiero razionale, e pertanto non si può spiegare. Se si potesse spiegare, apparterrebbe al pensiero razionale, e allora non esisterebbe, essendo stato inventato appunto per produrre una esperienza che la ragione non può produrre.

7. Un Autore è artista solo quando riesce a creare un suo stile, che è il suo personale, unico, irripetibile, inconfondibile, modo di formare: il “suo mondo”.

8. Un’opera è opera d’arte solo quando, in quello stile, è artisticamente riuscita.

9. L’esperienza esistenziale della artisticità dell’opera non è contemplazione passiva, con perdita della personalità da parte del soggetto fruitore (Schopenhauer), ma contemplazione attiva (che esalta l’identità del soggetto): cioè e-stasi attiva (greco: ek-sistemi): stare fuori di sé nell’artisticità dell’opera. La fruizione dell’opera é composita (R. Ingarden) in quanto dopo l’”estasi” (in cui il soggetto accoglie in sé l’oggetto) c’é l’interpretazione (in cui il soggetto è co-produttore dell’oggetto).

10. Il bisogno della forma “bella” e il bisogno della forma “artistica” (che sono due cose diverse) sono bisogni inconsci, innati e universali, che diventano operativi quando diventano consci. In questa coscienza l’uomo cerca e produce il “bello” e l’“artistico”.

11. Tutti possono imparare a fare l’esperienza estatica dell’artisticità (e questo riconoscimento della artisticità dell’opera avviene anche fra differenti culture e differenti epoche), ma solo se o quando il bisogno di forma artistica è conscio.

12. L’arte non ha progresso, è sempre “contemporanea” per l’interlocutore, anche se appartiene a epoche e culture differenti: infatti la sua funzione genetica prima è produrre (comunicare) una emozione (“estasi”), che è sempre la stessa e non progredisce, anche se progrediscono le tecniche per produrla. Invece la funzione genetica prima della scienza moderna è produrre (comunicare) una conoscenza (che progredisce). L’opera d’arte ha valore in quanto costitutivamente conchiusa (unica e compiuta per se stessa) nel pensiero simbolico; l’opera scientifica ha valore in quanto costitutivamente non-conchiusa, ma invece “aperta”, progressiva (e progredisce in altre opere successive) nel pensiero razionale. Giotto non è meglio (più progredito) di Prassitele in quanto più “nuovo” in un progresso nel tempo dell’arte, mentre Einstein è meglio (più progredito) di Newton in quanto più “nuovo” nel progresso nel tempo della scienza moderna.3

13. L’estetizzazione della vita (esteticità diffusa) è una operazione differente dalla operazione arte. E’ pertanto scorretto comprenderla nel concetto di arte e definirla con la parola “arte”, solo perché conserva (ancora per poco) un carisma che permette di sfruttarla per scopi di lucro, potere, successo, politica ecc.

14. L’arte è anche una risposta al bisogno di identità. La creazione artistica instaura una forte identità per differenza. Il processo di formazione (e conseguente riuscita dell’oggetto artistico) è un processo di differenziazione dell’Autore che instaura una sua forte individuazione (il suo “nuovo”, il suo “originale”) nella differenza dagli altri oggetti artistici. Inoltre l’opera d’arte è un fortissimo Altro che esalta l’ientità dell’inerlocutore.4

15. La “morte dell’arte” non è un problema di cui possa occuparsi la metafisica filosofica. La “morte dell’arte” concerne l’antropologia, implica una mutazione dell’homo sapiens sapiens in un altro ominide. Se la mutazione antropologica in atto, determinata dalla Tecnica, muterà il rapporto dell’uomo con la morte, il bisogno della esperienza dell’arte (inventata per conciliare come simbolo sintetico, come “tempo fermo”, la contraddizione vita/morte) verrà meno e l’artisticità si dissolverà definitivamente nella esteticità diffusa.

Parlando del sistema antropologico dell’arte, il problema primo che ci si pone non è quello di come si crea un’opera d’arte, di quando un’opera sia un’opera d’arte, e anche quindi se un’opera sia un’opera d’arte in una cultura e non lo sia in un’altra (relativismo culturale). Il problema primo è capire perché l’umanità ha bisogno della esperienza esistenziale della qualità di artisticità, e quindi di produrre opere d’arte. Che una persona senta l’artisticità di un’opera, e un’altra persona non la senta, e la senta invece in un’altra opera, è un problema enorme, ma secondo, che può essere risolto (e deve essere risolto, pena la scomparsa stessa della operazione arte) solo dopo aver risolto il primo. Che è assolutamente antropologico e psicologico, e non storico o filosofico.

Bisogna anzitutto cercare di capire cosa sia l’esperienza della artisticità che gli uomini (coloro che ne hanno bisogno) perseguono. E dunque perché sia stata inventata l’operazione arte che quella esperienza provoca (e il cui bisogno soddisfa).

1. 1. Il bello. La forma. La cura della forma.

O Beauté monstre énorme, effrayant, ingènu... (Baudelaire)

Tutti gli uomini usano la categoria bello/brutto. Vuol dire che tutti gli uomini hanno bisogno della esperienza esistenziale del bello. Si tratterà poi di sapere se tutti gli uomini hanno anche bisogno della esperienza esistenziale dell’artistico, essendo l’artistico altra cosa dal bello (dice Herbert Reed che “l’identificazione di arte e bello sta alla radice di tutte le nostre difficoltà nella valutazione della prima: questo non si ripeterà mai troppo spesso, né troppo forte”).

L’uomo usa indifferentemente la parola “bello” nel linguaggio comune per l’esperienza di tre oggetti differenti: l’oggetto naturale (un bel tramonto, una bella donna, un bel paesaggio); l’oggetto artificiale artigianale (un bel vaso); l’oggetto artificiale artistico (un bel quadro, una bella sinfonia).

Gli oggetti vengono definiti belli quando hanno una forma bella. La percezione della forma bella, a prescindere da altre funzioni che possa avere la forma, è bisogno e prerogativa dell’homo sapiens sapiens (che è la definizione dell’ultima presente fase dello sviluppo della coscienza dell’Io).

L’uomo ha dunque un bisogno fondamentale, costitutivo della forma bella: per semplificare, ha bisogno di forma. Questo bisogno può essere conscio, o solo inconscio. Quando il bisogno è conscio, egli si trova nel situazione esistenziale di bisogno di forma, di predisposizione alla forma, e quindi di consapevole ricerca della forma: egli è allora interlocutore della forma.

Il bisogno di forma ha origini nel mondo animale. Gli animali sono sensibili a certe organizzazioni formali (ottiche, olfattive, tattili, mobili, acustiche) che funzionano come segnali. Sono state definite da K. Lorenz “dispositivi di scatto”, in quanto determinano movimenti automatici di risposta, istintivi e innati. Così, per esempio, certi movimenti ritmici e certe molto regolari organizzazioni di colori forti, sono dispositivi di scatto ottici. La loro proprietà generale è l’improbabilità”: in una natura che si presenta all’occhio molto irregolare, la loro regolarità è visibile appunto perché improbabile. Se la natura fosse tutta più regolare, la quantità di informazione del segnale svanirebbe.

La regolarità dei dispositivi di scatto è affine a quella degli archetipi fomali4a della psiche umana, e annuncia la sensazione estetica del bello nell’uomo (dal bello della simmetria, proporzione e ordine di Aristotile fino al bello decorativo (senza narrazione) dell’artigianato).

Nell’uomo, che è povero di istinti (“carenza istintuale”, A. Gehlen) ma ricco di prestazioni intellettuali, il dispositivo di risposta automatica al segnale è venuto meno, per cui fra il bisogno indotto dal segnale e il suo adempimento si è aperto uno spazio (uno “iato”) disponibile all’intelletto per un uso differente, non più automatico, del segnale. E’ in questo “deficit di adempimento” (il piacere dell’adempimento è differito) che si fissano le pulsioni umane, che sono altra cosa dagli istinti animali.

In questa sospensione del piacere, il segnale sessuale (per esempio) “labbra dipinte” diventa ora solo un riferimento al piacere sessuale, che viene differito. Queste “labbra dipinte” piacciono a X, perché si riferiscono al piacere sessuale. Per questo le dice “belle”. Questo bello è qui un attributo che X conferisce loro: sono belle perché gli piacciono (sessualmente), le desidera.

Non sono ancora un “bello come contemplazione”, sono ancora un “bello” come desiderio.

E qui si apre, non risolta, la questione del paesaggio dal “è bello perché mi piace” (bello come attributo che si conferisce all’oggetto) al “mi piace perché è bello” (bello come proprietà nell’oggetto naturale e come qualità nell’oggetto artificiale, artigianale e artistico).

Come può il bello soggettivo e relativo (“per me è bello perché mi piace”, invece “per me non è bello perché non mi piace”) diventare un bello oggettivo (che deve per forza piacere a tutti perché oggettivamente bello)?

Si può supporre che è nel “deficit di adempimento” che quelle labbra, perdendo la prerogativa di segnale sessuale, diventano belle per se stesse, da contemplare. Ma, a questo punto, perché (e quando) dovrebbero essere considerate belle, e non magari brutte? Infatti alcune labbra sono considerate belle, e altre brutte, ma in base a quale criterio? Cosa fa “bello” un oggetto, quando non è più un oggetto del desiderio (sessuale)? Anzi, quando ridiventa oggetto del desiderio (ma estetico), appunto perché è bello?

C’è in questo passaggio certamente uno scatto nella evoluzione della coscienza dell’Io, che inventa le categorie di “bello e brutto”. Certamente, per rientrare in queste categorie, l’oggetto deve possedere ora sue intrinseche caratteristiche “disinteressate di bellezza”, e non caratteristiche di interesse estrinseco (desiderio sessuale e altro). Già i dispositivi di scatto hanno caratteristiche intrinseche, secondo archetipi formali (simmetria, ordine, iterazione, ritmo, ecc.), e questi archetipi formali incidono senz’altro sull’essere oggettivamente bello dell’oggetto, anche se non esauriscono certo la sua bellezza.

Ma a questo punto bisogna fare una distinzione fra gli oggetti: quelli naturali e quelli artificiali. I dispositivi di scatto sono oggetti naturali. Gli oggetti dell’artigianato e dell’arte sono oggetti artificiali. Negli oggetti artificiali gli archetipi formali della psiche hanno una grande importanza, di più in quelli artigianali (senza narrazione), meno in quelli artistici (con narrazione) (vedi capitolo 1. 2.). Ma le difficoltà si presentano già negli oggetti naturali. Forse un “bel tramonto” o “il fuoco, sempre bello da guardare” obbediscono ad archetipi formali? E che dire della “bellezza” di quell’oggetto naturale (naturale anche se visto in video) che è l’impatto degli aerei e il crollo delle Twin Towers?4a

E’ difficile questo discorso sul bello, ma non si può eluderlo. Tanto più oggi, quando la Tecnica interferisce ormai con tanta rapidità sul processo della crisi dell’Umanesimo, da interromperne bruscamente ogni possibilità di riflessione autocritica, incalzata dalla mutazione antropologica in atto. C’è infatti chi vede in questa mutazione un ripresentarsi del bello come desiderio. Nell’epoca della comunicazione digitale e dei new media, si ipotizza la bellezza “come energia espressiva capace di sottrarsi elusivamente ai poteri e alle istituzioni della scrittura e di radicarsi profondamente nella corporeità illetterata e desiderante dei consumatori dei media. Da quando esiste la tradizione del pensiero estetico, la bellezza, come l’essere aristotelico, si dice ed è stata detta in infiniti modi. I media, in particolare i nuovi media, non fanno altro che dare corpo a una qualità della bellezza che, sia pure in forma sotterranea, gli uomini hanno da sempre somaticamente percepito e vissuto, ovvero la sua originaria tangenza con gli abissi inauditi del desiderio”.4b “Forse nelle forme rassicuranti e asettiche della bellezza tradizionale si sono inesorabilmente sviluppati gli embrioni di una nuova civiltà, di un nuovo modo che i soggetti hanno maturato di intrattenersi con gli oggetti e con gli altri soggetti”. 4c Il pensiero di Abruzzese “è nella convinzione che nei fluidi ed espansivi territori sociali determinati dall’incessante innovazione tecnologica del sistema della comunicazione si coaguli un insieme di pulsioni individuali e collettive del tutto spontanee e imprevedibili, nonché storicamente del tutto inedite perché finalmente non più contaminate dalle culture e dalle ideologie dell’Occidente; insomma, un campo di energie allo stato puro- che sbrigativamente mi permetto di sintetizzare simbolicamente nella figura archetipa del “nuovo barbaro analfabeta”-, che per ora si offre come naturale terreno di sfruttamento alla destra berlusconiana, ma su cui una politica realmente capace di usare tutte le potenzialità del linguaggio cibernetico può far leva per attuare non so quale rivoluzione della moltitudine dei consumatori desideranti”. 4d

Si tratta insomma di un ritorno al “è bello perché mi piace”, alla identificazione del “bello” con il desiderio. La categoria bello/brutto disinteressata, sarebbe in fondo una imposizione culturale, una prigione. Il punto cruciale del passaggio evolutivo dal “è bello perché mi piace” al “mi piace perché è bello” non viene risolto, capito, ma eluso e superato dalla mutazione antropologica incombente, che ne cancella la stessa esistenza. Eppure quel passaggio sembra essere un gradino irrinunciabile nel processo di evoluzione della coscienza dell’Io. Si tratta allora certamente di una involuzione, di una regressione, di un’altra perdita di “sapere”4e: senza il quale sapere l’arte non sarebbe neppure esistita. Anche da queste brevi considerazioni, che sfiorano appena il grande argomento attuale della “cultura cibernetica”, emerge la profonda contraddizione fra Tecnica e arte (vedi cap. 2. 4).

Ma ritorniamo al passaggio dal “è bello perché mi piace” al “mi piace perché è bello”. Ci stiamo occupando di come un oggetto perde ogni riferimento al desiderio e la sua forma viene apprezzata per se stessa secondo le categorie “bello/brutto” (e da qui, infine, secondo le categorie “artistico/non artistico”). E di come dunque a quel desiderio subentra tutt’altro desiderio, quello della contemplazione della sua forma.

Ora, se questo avviene, è perché l’uomo ha bisogno di sentire la bellezza della forma: ha, sinteticamente, bisogno di forma. E questo bisogno di forma (bella) è disinteressata, non ha più niente a che vedere col bello come desiderio (=è bello perché mi piace, lo desidero”). Questo bisogno di forma non solo produce oggetti la cui funzione prima è quella di esibire la propria forma, ma fa anche riconoscere negli oggetti naturali prerogative per cui sono oggettivamente belli. E non importa se per alcuni sono belli, e per altri meno, o per niente, secondo il gusto. Ciò che conta è l’esistenza comunque del bisogno, universale, antropologico, della contemplazione di una forma oggettivamente bella: l’universale antropologico bisogno di forma.

Allora la domanda più pertinente è: perché l’uomo ha un così forte bisogno di forma (visiva, sonora, testuale, olfattiva, tattile ecc.)?

Perché sente che la forma bella è immodificabile. E’ perfetta così com’è (se si modifica, si perde la sua perfezione, la sua bellezza). E questa sensazione è ineffabile e desta meraviglia. E anche sicurezza. E’ la Grande Madre.

L’uomo inventa il bello, la bellezza, come sfida alla morte. Alla angoscia del divenire.

Infatti ciò che modifica le cose è il tempo.

Se il tempo modifica la forma bella, la sua bellezza si perde.

La forma bella è bella in quanto si sottrae al tempo.

La psiche sente il bello fuori dal tempo.

La psiche sente il bello come “eternità”.

Essere in presenza del bello è un’estasi (dal greco ek-sistemi, essere, stare fuori di sé): è stare fuori di sé in una bella forma. Cioè nella eternità.5 Assolutamente uno stare: non un mutare (essere modificati) nel tempo.

Se sentire il bello è dunque un bisogno fondamentale costitutivo dell’uomo, anche produrre il bello, per poterlo sentire, in un oggetto artificiale (artigianale e artistico) è un suo bisogno fondamentale costitutivo.6

Così nel produrre certi oggetti, l’uomo rincorre la forma bella: che in questo caso si chiama forma riuscita, risultato di un processo di formazione riuscito. Egli ha un tale bisogno della forma riuscita (nel linguaggio comune: “bella”, “ben fatta”) da interferire nella forma funzionale, d’uso degli oggetti, addirittura a volte deformandoli fino a vanificare la loro normale funzione, per conferire loro la funzione, che genericamente si dice estetica, di esibire la propria forma.

Quando l’uomo produce l’oggetto, può cercare di ottenere una forma “ben fatta”, nel senso di funzionale al buon funzionamento dell’oggetto. Oppure può cercare di ottenere, con la cura della forma, una “forma bella”, che può anche contrastare il buon funzionamento dell’oggetto8

Ma allora appunto l’oggetto cambia funzione, che ora è quella di anzitutto esibire la propria forma.

Allora il bello è ora una qualità, esibita nell’artigianato e nell’arte, risultato di un processo di formazione riuscito, opera dell’uomo.

E la parola chiave di questo processo è: eternità.

La contraddizione prima costitutiva dell’homo sapiens sapiens è quella di vivere sapendo di dover morire, per cui il superamento di questa contraddizione è stato da sempre la sua principale preoccupazione, sia nel pensiero razionale (filosofia, scienza), sia nel pensiero simbolico (religione, artigianato, arte).

La cura di una forma bella (“riuscita” nell’artigianato e nell’arte) è l’artificio per eccellenza del pensiero simbolico profano, non sacro, contro questa “angoscia del divenire”, per far sentire l’uomo partecipe della eternità. 7

Partendo dalla potenza della forma nei dispositivi di scatto degli animali, l’uomo ha trasferito così questa intensità emotiva della forma nella dimensione del tempo, come spazio anti-tempo.

Nella dimensione euclidea della psiche la forma viene dunque sentita come spazio “che sta”, che è fermo perché è dappertutto, è pervasivo, infinito; e quindi immobile, e quindi immodificabile, e quindi perfezione, e quindi eternità. “Sta” in opposizione al tempo che “va”, che è continuo inesorabile mutamento e divenire.

Produrre un oggetto con cura della forma vuol dunque dire cercare di “eternizzare” l’oggetto.

Fra innumerevoli tipi di oggetti, con differenti funzioni, l'uomo ha prodotto oggetti artigianali e artistici, la cui funzione prima è quella di esibire la propria forma, per cui sono stati prodotti con cura della forma (ciò non succede per altri oggetti prodotti dall'uomo, che hanno anzitutto altre funzioni, pur ovviamente avendo una qualche forma). Negli oggetti artigianali e artistici, la funzione prima per cui sono stati prodotti è assolta anzitutto dalla forma.

Ci sono altri oggetti prodotti con una certa cura della forma, ma la cui funzione genetica prima non è esibire la propria forma, in quanto in essi il significato (il contenuto) si impone comunque sulla forma. Sono gli oggetti estetici e estetici testimoniali.9

Dunque la funzione prima di un oggetto artigianale o artistico è quella di esibire la riuscita delle rispettive forme artigianale o artistica. Un oggetto si riconosce come oggetto che pretende di essere riuscito, quando mostra con tutta evidenza la cura della forma con cui è stato prodotto.

Colui che in presenza di un oggetto è nella situazione esistenziale di bisogno di forma, percepisce immediatamente se l’oggetto preso in considerazione è stato prodotto con la cura della forma. Allora egli si fa immediatamente “interlocutore” della forma dell’oggetto, e può imparare a riconoscere la riuscita della forma (o la sua non riuscita), sia come oggetto artigianale che come oggetto artistico. Infatti, percepita la cura della forma, colui che ha bisogno di forma si pone automaticamente dal punto di vista dell’Autore (che, con lo stesso bisogno di forma, ha formato l’oggetto). Egli si rende conto che la cura della forma (la formazione dell’oggetto) è stata la preoccupazione prima dell’Autore in quell’oggetto: e quindi che la funzione prima dell’oggetto è quella di mostrare all’interlocutore questa forma artigianale o artistica (mentre tutte le altre compresenti possibili funzioni sono secondarie).

E’ della massima importanza questo riuscire a porsi dal punto di vista dell’Autore. E’ in fondo il semplicissimo segreto di una corretta fruizione delle opere.


1.2. Artigianato e arte.

Sia l’artigianato che l’arte formano oggetti che inducono alla esperienza della forma riuscita. Ma c’è tra loro una profonda differenza. Descrivere qui, anche se brevemente, questa differenza, serve a meglio definire ancora una volta l’arte storica (del procedimento tradizionalista).

Nell’artigianato l’uomo cerca l’eternità nel mondo. Nell’arte l’uomo cerca l’eternità in se stesso.

Più precisamente, l’opera riuscita artigianale è il risultato di un processo di formazione di qualcosa che è per se stessa, nel mondo, fuori dall’uomo.

L’opera riuscita artistica è il risultato di un processo di formazione di qualcosa che l’uomo dice, è sua espressione; che è dentro l’uomo, fa parte dell’uomo (un suo esprimersi, dire qualcosa, narrare): più propriamente una immagine mentale (una narrazione, una significazione).

Allora, nell’artigianato cercare l’eternità nel mondo vuol dire creare forme belle in un processo di “distillazione di essenze” formali dall’apparente caos della natura. Ci si affida, pur trasgredendoli, agli archetipi formali che affiorano dalle profondità della psiche, dall’inconscio individuale e collettivo, cioè a quelle costanti dove l’uomo ritrova la comunione con l’”eternità” della natura. Che sono l’organicità, l’unità, la compiutezza, la simmetria, l’equilibrio, la proporzione, la sintesi, la ortogonalità, le parallele, il centro, il cerchio, il ritmo, l’iterazione, ecc., ecc. (vedi anche le figure della Gestalt). Questi archetipi formali sono ciò che “sta”: appartengono alla dominante psichica “il femminile” (“il femminile sta, il maschile diviene”). Appartengono alla Grande Madre protettiva, pur nella sua ambiguità di Madre creatrice e distruttrice (distruttrice in quanto essere “divorati dagli archetipi” vuol dire distruggere ogni forma nel virtuosismo nevrotico).

Nell’arte cercare l’eternità in se stesso vuol dire intraprendere un processo di formazione di un’immagine mentale della realtà.

Il processo di formazione di un’opera d’arte parte infatti sempre da una immagine mentale della realtà, realtà che può essere la realtà esterna “vera” quanto un sentimento o una immaginazione, insomma tutto il vissuto. Tutto il vissuto, che è all’origine dell’opera d’arte, è filtrato da una immagine mentale di esso, che si pone all’inizio de processo di formazione (se ne farà un esempio più avanti parlando di Van Gogh).

Conclude queste brevi note sulla differenza fra artigianato e arte un testo pubblicato sul quotidiano “Il Messaggero Veneto” di Udine/8 marzo 2003: “L’artigianato cos’é? Non certo la disciplina che produce a mano, o comunque in modo non industriale e seriale, oggetti d’uso. Se così fosse, un oggetto artigianale “riuscito” sarebbe quello che assolve meglio la sua funzione d’uso. Ma ciò appartiene alla categoria del funzionale, mentre gli oggetti artigianali vengono giudicati secondo la categoria del “bello/brutto”. Occorre allora una definizione più corretta, partendo dalle origini.

Nel neolitico l’uomo inventa oggetti che sono strumenti d’uso, ma non si limita a “formarli” secondo la funzione. Li pretende anche “belli”. Li decora, li deforma, al punto che questa loro nuova forma può addirittura disturbare o far perdere del tutto la loro funzionalità. In altre parole, li produce con una “cura della forma” tale che la loro funzione prima, che era quella di essere strumenti funzionali d’uso, è ora diventata quella di anzitutto esibire la propria forma “bella”. Un vaso può diventare un oggetto bellissimo, e inadeguato alla funzione originale.

Ma questa di esibire la propria forma, non è la funzione prima dell’oggetto artistico? Certamente. E si parla infatti di artigianato artistico. Ma ancora una volta è una definizione impropria, addirittura un ossimoro. Perché l’artigianato, anche inteso ora come produzione di “oggetti inutili e belli”, è tutt’altra cosa dall’arte.

Se affrontiamo la questione da un punto di vista psicologico e antropologico, ci vengono subito incontro le categorie del “maschile” e del “femminile”. Qui i due termini non indicano un carattere sessuale, ma una dominante psichica. ”Maschile” e “femminile” sono simboli di una condizione psichica, stanno in commistione nella psiche di ogni individuo, donna e uomo. E diciamo subito che l’arte appartiene più al “maschile”, e l’artigianato più al “femminile”.

Al di là di ogni gerarchia di valori (questo è meglio di quello), propria degli schemi mentali della cultura patriarcale, si tratta di riconoscere le “differenze”, che spiegano la necessità antropologica (il soddisfacimento di bisogni fondamentali) dei differenti oggetti artigianali, estetici e artistici.

Si sa che all’origine dell’opera d’arte sta sempre un’urgenza umana di “dire” qualcosa, di comunicare un significato. Anche nell’astratta musica, o nella scultura e pittura non rappresentative, si riconosce la narrazione che scorre nelle vene dell’opera. Le opere d’arte sono sempre narrazioni, ma narrazioni prodotte con una “cura della forma” tale per cui la funzione di “dire” si è trasformata anche qui nella funzione di esibire la propria forma. E così in esse il significato coincide con la forma. Ora, poiché nella psiche il significato è sentito come vita, tempo che scorre e va, inesorabile mutamento, “divenire”; e la forma è sentita invece come spazio che sta, che è dappertutto, è pervasivo e infinito, e perciò immobile e fermo e immodificabile, cioè perfezione, “eternità”; ecco allora che la coincidenza nell’opera d’arte di significato e forma fa che il tempo (il significato) sia anche eternità (la forma). Ma questa è una contraddizione inconciliabile nel pensiero razionale, in quanto in esso una cosa (il tempo) non può essere anche il suo contrario (eternità). Ma è appunto quella contraddizione fondamentale che viene conciliata nel pensiero simbolico dal simbolo sintetico che è l’opera d’arte (tempo fermo).

Dunque, fondamentalmente, l’opera d’arte è anzitutto un “dire”: un “grido” di rivolta, di non accettazione della contraddizione fondamentale di vivere per morire, da parte della coscienza dell’Io (“maschile”), ad un certo punto della sua evoluzione. Un “grido” che si placa nella forma riuscita dell’opera, “trova pace nel suo compimento” (Bachtin).

L’opera dell’artigianato invece non “grida”. Si mostra soltanto, perché viene prima del “dire”. Il “femminile” artigiano non è ancora condannato al “dire”. Il “femminile” è l’origine, e si appaga della sua compiutezza, che è la bellezza in sé. Solo nella nostra cultura patriarcale la parola (il Verbo) è l’origine, e per questo in essa la bellezza, la forma non sono una condizione umana, ma solo un ornamento. Invece la forma, nel suo accettarsi così com’è, in quanto spazio infinito, immobile, “eterno”, è condizione del “femminile”, che accoglie e contiene in sé ogni parola detta o da dire: il “femminile” “sa” già.

L’operare artigiano appartiene dunque al “femminile”, nel suo sottrarsi al richiamo potente del “maschile” (parole, narrazione, Mythos, Spirito, padre). L’operare artigiano, ancora incontaminato da ogni necessità di un senso, si compie tutto nella sua libera innocente virginale bellezza.

Il femminile artigiano è l’inconscio che disegna libero le forme, è il corpo che si compiace della proria forma. Non “dice”: si manifesta nella silente pura forma della bellezza. Ed è forse concesso all’uomo qualcosa che “dica” di più del silenzio della bellezza?

Bisogna allora fermarsi, e ritrovare nelle opere artigiane, come in un mirabile specchio, il nostro “femminile”, la coscienza matriarcale: “...se si tien conto delle debolezze e dei pericoli psicologici della cultura patriarcale, la cui forma estrema ha portato nel moderno occidente a una crisi che minaccia l’intera umanità, si potrà evitare l’errore di considerare la `coscienza matriarcale´ solo come una eredità arcaica e il femminile come `relativamente non sviluppato´” (E. Neumann). Fermiamoci dunque a specchiarci, e rientriamo in noi stessi”.


1.3 Narrazione, stile, riconoscimento, “tempo fermo”.

Nell’arte l’umanità, nella sua dominante psichica “maschile”, cerca dunque l’eternità in se stessa. “Eternizza” una propria espressione, l’immagine mentale della realtà che dice nell’opera. L’immagine mentale ha un significato, è una narrazione: L’opera d’arte è sempre una narrazione, non può non essere una narrazione.

Questo è fondamentale: l’arte è narrazione di un mondo unico inventato dall’Autore. Sempre. 10

Le narrazioni possono essere: 1. narrazioni qualsiasi, di comunicazione. 2. narrazioni estetizzate, prodotte con una certa cura della forma, ma dove, essendo il significato ancora separato e prevalente sulla forma, si possono avere differenti forme senza che il significato cambi 11. 3. narrazioni artisticizzate/opere d’arte, prodotte con una cura della forma tale, per cui il significato coincide con la forma.

Dunque nell’uso dei linguaggi specifici (letteratura, pittura. musica, cinema, danza, teatro, fumetto ecc.) avviene la trasformazione di una narrazione con una forma qualsiasi, che è solo comunicazione di qualcosa, in una narrazione con una certa forma, che esibisce se stessa. Una narrazione qualsiasi (bisogno di dire) la cui funzione prima è comunicare qualcosa si trasforma in una narrazione la cui funzione prima è esibire la propria forma, a colui che ha bisogno di forma.

Una narrazione può tendere ad avere la funzione prima di esibire la propria forma solo quando la cura della forma tende a inventare uno stile. Non c’è cura della forma riuscita senza uno stile.

Lo stile è il modo di formare di ogni Autore/artista.

Dice Pareyson: “In questo modo di formare è presente tutta la spiritualità dell’artista, nel senso che questa, una volta che si è posta sotto il segno della formatività, esige il suo modo di formare, anzi si fa, essa stessa, quel determinato modo di formare. E’ dunque il modo di formare, cioè lo “stile”, quello che tascina nell’arte l’intera vita spirituale dell’artista, perché questi nel suo formare segue un modo singolarissimo e inconfondibile, ch’é unicamente suo e non d’altri, ch’é il suo modo di formare, il modo che non può esser che suo, e ch’è la sua stessa spiritualità fattasi tutta, modo di formare: stile”.12

Non si dà opera d’arte senza uno stile.

La riuscita di un processo di formazione presuppone sempre uno stile.

Lo stile è il modo di formare originale, personale, irripetibile, unico, il “suo mondo” di ogni Autore/Artista.

Ma se tutte le opere d’arte hanno per forza uno stile, non tutte le opere che pure hanno uno stile, sono opere artisticamente riuscite, cioè opere d’arte.

Allora diciamo:

1. Un Autore è Artista solo quando riesce a inventare il suo stile “unico” (l’unico originale riconoscibile “suo mondo”).

2. L’opera d’arte è tale solo quando in quello stile è artisticamente riuscita.

Dunque, tutto ciò avviene se l’Autore ha inventato una narrazione con uno stile che è il “suo mondo” (una realtà altra, originale, unica). Poiché questo “mondo” esiste solo in quanto forma, la funzione prima di questa narrazione è esibire la propria forma. Forma che riesce veramente a essere un “mondo” solo se artisticamente riuscita.

Per cui è assolutamente primaria nella ricezione di un’opera d’arte l’esperienza della sua riuscita (il riconoscimento), rispetto a tutte le conseguenti infinite interpretazioni possibili della ermeneutica.

Il riconoscimento è l’esperienza esistenziale immediata (non mediata dalla ragione) della riuscita della forma dell’opera (della riuscita di tutto l’insieme di forme di cui è composta l’opera), riuscita per cui quella forma non deve in nessun modo essere modificata, essendo sentita “perfetta” così come si presenta. Il riconoscimento o “esperienza esistenziale” della artisticità è dunque un sentire immediatamente la qualità artistica dell’opera in una intuizione prerazionale del pensiero simbolico. L’esperienza della artisticità è uno “star fuori” (dal greco: ek-sistemi) dalla razionalità, in un incantamento che non è un’estasi (ek-stasis) passiva, bensì un’estasi attiva, attenta: uno stare del sé fuori di sé nell’opera. Così intensa da essere una massima presenza del sé nell’opera: un essere se stessi al massimo grado. Una fortissima costituzione di identità.13

Dunque il riconoscimento, o “esperienza esistenziale” della qualità di artisticità nel pensiero simbolico, non esaurisce l’esperienza dell’opera, ma è la conditio sine qua non di ogni ulteriore corretta ragionata interpretazione con conseguente soggettivo giudizio di valore di essa (in una razionale ermeneutica formale e contenutistica). Il riconoscimento è infatti quella parte della esperienza dell’opera in cui si sente ciò che fa la differenza fra un’opera qualsiasi (comunque sempre oggetto di possibile interpretazione) e un’opera artisticamente riuscita (che è invece l’unica a permettere l’esperienza della artisticità).

Il riconoscimento della qualità di artisticità è transtorico e transculturale, si può solo sentire (nel pensiero simbolico) e si manifesta al di là e nonostante i condizionamenti culturali e di gusto, mentre l’interpretazione (esperienza ermeneutica e giudizio di valore) è in gran parte soggettiva, condizionata dalle variazioni di gusto nel tempo, nelle culture e negli individui, non essendo i “valori” valori universali, ma solo valori di una certa cultura. L’interpretazione, che appartiene al pensiero razionale, è dunque storica e culturale e relativa. Il riconoscimento, che appartiene al pensiero simbolico, è transtorico e transculturale.

L’esperienza esistenziale (riconoscimento) dell’artisticità non è affatto una esperienza elitaria: può essere di tutti coloro che ne sentono il bisogno e la vogliono fare (vogliono imparare a farla). Si impara a farla nella frequentazione assidua e reiterata delle opere. L’”esperienza ermeneutica” (l’interpretazione dei significati e il ragionato giudizio di valore) è invece solo di coloro che per la situazione sociale e culturale la possono fare.

Distinguere fra riconoscimento dell’artisticità e interpretazione dei significati è essenziale per l’interlocutore dell’opera.

La Capria: “Quando dico che per il senso comune Les Demoiselles d’Avignon è un brutto quadro, non parlo solo del bello e del brutto (soggetti a mutamenti nel tempo e alle oscillazioni del gusto), e non parlo solo de Les demoiselles d’Avignon.

Parlo di tutte quelle opere d’arte che non mi comunicano un’emozione artistica paragonabile allo stupore e alla meraviglia. Capire i motivi per cui è stata creata un’opera d’arte, e capire i significati che contiene, non dovrebbe aver nulla a che fare col coup de foudre che l’assoluta bellezza suscita in noi. Se ho visto la bellezza non desidero altro, la bellezza mi basta. Così fu quando vidi i Bronzi di Riace. Chi mai si sarebbe sognato di domandarsi, quando numinosi essi ci apparvero sorgendo dal mare, cosa significavano?” 14

Dunque può imparare a riconoscere l’artisticità solo chi ne ha coscientemente bisogno. Per questo moltissimi, che ne hanno solo un bisogno inconscio, sono sordi alla artisticità. “Non vedrà mai il sole l’occhio che non sia divenuto solare e nessun’anima vede il bello prima che essa stessa non sia divenuta bella “ 15

Dunque, rispetto alle narrazioni qualsiasi e alle narrazioni estetizzate, avviene nell’opera d’arte una rivoluzione, un capovolgimento. Se nelle narrazioni qualsiasi e in quelle estetizzate si impone il significato sulla forma, qui è la forma che si impone sul significato, tanto da diventare essa stessa un nuovo, fondamentale significato. Per cui significato e forma coincidono. Nella narrazione/opera d’arte il significato è la sua forma.

Si tratta della stupefacente invenzione di una operazione nuova, molto differente dalle altre narrazioni, che ha certamente richiesto un percorso di migliaia di anni per consolidarsi, ma che ogni Autore, nel suo proprio modo, ripercorre ogni qualvolta produce un’opera d’arte. L’immagine mentale che sta alla base del processo di formazione, viene tras-formata in questo processo in una forma definitiva e necessaria, l’unica possibile e “giusta” per quella immagine mentale.

Ogni opera d’arte è il risultato di un processo di formazione riuscito: ed è in questa riuscita che avviene la sintesi (simbolo sintetico) di significato e forma.

Qui viene riproposta, per completare il discorso sul procedimento tradizionalista, una parte del testo dal titolo “Tempo fermo” pubblicato sul primo numero di questa rivista.

“ Tutto ciò richiede la massima attenzione. Partiamo da un esempio tratto dai linguaggi visivi, perché più semplice. Si prenda una normale fotografia “documentaria” ma “ben fatta” di una casa, e un quadro riuscito di Van Gogh con la stessa casa, dallo stesso punto di vista. La prima è l’illustrazione documentaria di una casa, è un significato (narrazione) “casa” con una forma “ben fatta”. In essa il significato si impone sulla forma. Infatti la forma può anche essere modificata senza che si modifichi il significato “casa”. A meno che non si lavori sulla foto fino a snaturarne la consistenza di documento (fino a distruggere la visibilità del significato “casa”), il significato (documento) si impone comunque sulla forma. Si tratta di una narrazione “ben fatta”, cioè estetizzata, quindi di un oggetto estetico.16

La casa dipinta nel quadro di Van Gogh invece non è un significato “casa” ben dipinto, un significato “casa” con una forma ”ben fatta”. Ma è anzitutto una forma formata nello stile di Van Gogh e in modo tale da essere per se stessa un nuovo, forte significato, che si impone sul significato originario “casa”. E’ l’invenzione di un mondo “altro”.

Succede che, mentre nella fotografia si impone la casa reale, troppo vera nel mondo vero, cioè il significato (originario), e la forma può anche essere modificata senza che il significato cambi, nel quadro si impone invece una forma, che è la invenzione di una forma di casa nello stile di Van Gogh, cioè nel mondo “altro” inventato da Van Gogh, che è così “forte” come invenzione originale di un mondo da imporsi esso come il nuovo vero significato. Il significato che ora si impone non è più la casa vera (che è stata il modello per Van Gogh): questa casa vera viene “cancellata”, “fatta dimenticare”, da questa nuova forma/casa inventata da Van Gogh.

Questa forma/casa inventata da Van Gogh è anzitutto una forma, ed è una forma così assolutamente unica, da essere essa stessa un nuovo significato, un nuovo mondo. E’ dunque una forma che è un significato, nel suo essere forma.

Allora la differenza fra una narrazione normale o anche estetizzata, e la narrazione artistica (opera d’arte) sta in ciò, che nelle prime il significato si impone sulla forma, nell’altra invece la forma si impone sul significato, in quanto è essa stessa il fondamentale significato.

Per meglio capire riprendiamo il discorso partendo dal processo di formazione.

Van Gogh vede una casa, decide di fare un quadro con quella casa. Accingendosi a dipingere, si forma automaticamente nella sua mente una immagine mentale, cioè una narrazione mentale nel suo stile, della casa. Da questa immagine mentale parte il processo di formazione dell’opera. Il processo di formazione viene inventando la forma/casa di Van Gogh, di pennellata in pennellata. Il processo continua finché l’Autore sente che esso è compiuto, e qui si ferma.

L’immagine mentale è narrazione che viene tras-formata in un’altra narrazione: in questa metamorfosi si forma, quando riuscita, la qualità di artisticità.

Dunque Van Gogh inventa nel suo stile la forma del suo mondo, una sua narrazione di casa che nella realtà non esiste, che è quindi un nuovo significato. Un significato che è anzitutto una forma.

Questa forma si è venuta formando, nel processo di formazione, fino a essere quella giusta, unica, riuscita per quel quadro: e perciò compiuta, immutabile, immodificabile.

Dunque la forma che Van Gogh viene inventando nel processo di formazione non è una forma qualsiasi, o anche “ben fatta” o “bella”. E’ invece una forma unica, imposta, obbligata, costretta dal suo stile: quella unica forma riuscita possibile imposta a Van Gogh dal suo stile per quella iniziale immagine mentale.

Lo stile di Van Gogh si è realizzato al massimo delle sue possibilità per quell’opera. Si è compiuto. Lo stile c’è anche nell’opera non riuscita, ma incompiuto: nella riuscita dell’opera c’è lo stile nella sua massima compiutezza.

Il processo di formazione si ferma dunque in quella forma compiuta, unica, giusta, definitiva, perfetta: “riuscita”. Riuscita e pertanto non più modificabile, perché modificandola se ne distruggerebbe la riuscita.17 Van Gogh, e gli interlocutori dell’opera, la sentono immodificabile, intoccabile, immutabile, perfetta. La sentono cioè come spazio/”eternità”.

L’immodificabilità della forma riuscita è ciò che anzitutto si impone perentorio all’interlocutore: questa immodificabilità corrisponde nella psiche al senso dello spazio pervasivo, immobile, infinito: spazio/“eternità”.

E’ in questa perfezione, in questa riuscita della forma che si “eternizza” l’invenzione del mondo di Van Gogh, che è nel suo stile nella massima compiutezza, e quindi è un nuovo intenso significato. Ma, se è significato, è tempo.

Ma allora succede che questo intenso significato, questo massimo di significazione = di tempo, è anche massimo di forma = di “eternità”. Questo è l’evento psichico che accade nella esperienza dell’opera d’arte: un tempo che si ferma in una forma immodificabile, quindi perfetta, “eterna”, pur conservandosi come tempo (in quanto significato).

Dunque: il processo di formazione si ferma in un limite, oltre il quale non si deve andare, perché, come si dice nel linguaggio comune, “va bene così, non si deve assolutamente più toccare”. In questo limite il significato (narrazione), che è tempo, quindi movimento, mutamento, divenire, si ferma in una forma ormai immodificabile, perché riuscita: è il limite dove il significato (narrazione/tempo) coincide con la forma, è esso stesso forma, pur conservandosi come significato (narrazione/tempo). E’ anzi in questo suo fermarsi “giusto”, in questa compiutezza (immutabilità, e quindi unicità), che acquista il nuovo significato/forma.

Per cui:

Il tempo si ferma, pur rimanendo tempo.

Più è fermo, più è tempo/significato. Più è tempo/significato, più è fermo.

Questo è l’evento, ciò che accade nell’opera d’arte: il tempo è fermato.

Ora, un tempo fermo è una contraddizione inconciliabile nel pensiero razionale, dove il tempo mutevole è il contrario dello spazio fermo (eternità).

E’ invece il prodigio del simbolo sintetico (opera d’arte), che concilia le contraddizioni nel pensiero simbolico.

Dunque:

“L’opera d’arte è tempo fermo”.

Il riconoscimento, l’esperienza della artisticità è l’esperienza esistenziale del tempo che si ferma in un “tempo fermo”.

Riprendendo: un significato, che è tempo, è ora anche una forma, che essendo unica, immutabile, perché perfetta così, è spazio/”eternità”. Il tempo è insieme spazio/”eternità”. Ma ciò non è concepibile nel pensiero razionale, per il principio di non contraddizione. Non è possibile nel pensiero razionale che una cosa sia anche il suo contrario, che il tempo mutevole sia insieme il suo contrario, spazio immutabile e “eternità”. E’ invece possibile nel pensiero simbolico, nella sintesi del simbolo sintetico, che è l’opera d’arte.

Il simbolo sintetico è quella entità che concilia nel pensiero simbolico le contraddizioni che il pensiero razionale non riesce a “capire”. Il simbolo sintetico (opera d’arte) concilia la contraddizione principe, costitutiva dell’uomo: la contraddizione di vita e morte, desiderio del vivere e consapevolezza del morire, la contraddizione fra il tempo che passa e va, e il desiderio di eternità. Fra il divenire del significato (il maschile), e l’“eternità” della forma (il femminile).

Van Gogh ha inventato una forma di casa dipinta che è insieme una forma e un nuovo significato. Mentre normalmente il significato e la forma sono separati, e dunque il tempo e lo spazio/”eternità” sono separati, opposti e contradditori, qui è invece avvenuta una rivoluzione, per cui significato e forma sono un tutt’uno, il tempo e lo spazio/”eternità” sono un tutt’uno. E’ la sfida della mente dell’homo sapiens sapiens al suo destino, alla sua contraddizione costitutiva di vivere per morire.

Ma attenzione: se il tempo tende a consumare, rendere mutevole modificandolo, mobilizzandolo, ciò che ha una forma nello spazio, la forma tende a annientare immobilizzandolo ciò che è nel tempo, il significato. Nel curare troppo la forma trascurando il significato, la narrazione può essere dissolta e annullata come significato. L’operazione arte si dissolve allora in operazione artigianale o in virtuosismo nevrotico. Non c’è niente di più distruttivo per l’arte del confondere l’artisticità con il formalismo. Per questo si insiste sul fatto che il tempo si ferma in una forma, pur rimanendo tempo, cioè significazione. E’ la peculiarità dell’opera d’arte quelle di essere comunque sempre narrazione-significazione, cioè tempo. Appunto per poter essere, in modo stupefacente, tempo e insieme forma (compiuta, immodificabile perché riuscita: cioè spazio/”eternità”).

Ci sono allora tre momenti determinanti nel rapporto della psiche con la forma: l’evento psichico della forma “ben fatta”, forma “bella” per se stessa (oggetto artigianale), l’evento psichico della narrazione con cura della forma, ma dove la forma è separata dal significato/narrazione (oggetto estetico) e l’evento psichico della narrazione con cura della forma in cui la forma coincide col significato (oggetto artistico). Sono tutti momenti cruciali del confronto fra l’Io e l’angoscia del divenire. Fra la capacità di astrazione (formazione) e l’accadimento (materia). Fra il bisogno di forma e la pulsione di morte e autodistruzione. Fra lo spazio/forma che sta e il tempo che va. Tra il “femminile” e il “maschile”.

L’homo sapiens sapiens non fa che creare, nell’opera d’arte, un suo tempo da fermare.

“Possiamo adesso avanzare un postulato centrale. Due sole esperienze permettono agli essere umani di partecipare alla finzione-verità, alla metafora pragmatica dell’eternità, della liberazione dai decreti di annientamento del tempo storico-biologico, vale a dire dalla morte. La prima è quella della fede religiosa autentica, per coloro che sono aperti a essa. La seconda è quella estetica. E’ la produzione e ricezione di opere d’arte, nel senso più lato, a permetterci di condividere la durata, il tempo senza confini. Senza le arti la psiche umana rimarrebbe nuda davanti alla propria estinzione”18


1.4 Il paradosso

Tutto ciò appartiene alla psiche, si sente nella psiche. Secondo la razionalità non c’è niente, a rigore, di perfetto, ma noi viviamo l’arte anzitutto secondo i sensi e non secondo ragionamenti. Come viviamo un sole che sorge e tramonta, e gira intorno alla terra, e non una terra che gira intorno al sole. 18a

Ciò che conta è allora la “tendenza alla perfezione” implicita nell’operazione. Ogni Autore sente l’opera tendere alla sua compiutezza, come se egli fosse “condotto per mano” verso di essa da una forza che lo trascende. Ogni Autore ha fatto l’esperienza della compiutezza di un’opera. Può succedere che dopo un certo tempo egli non senta più quella compiutezza nell’opera, e sia indotto, sempre da quella pulsione, a intervenire ancora sull’opera, per correggerla. Oppure che pensi che avrebbe potuto finire l’opera in altro modo. Per questo conserva le annotazioni e i progetti di altre soluzioni, magari per usarle in un’altra opera.19. Ma è la compiutezza, la perfezione del “tempo fermo”, ciò che l’Autore e l’interlocutore hanno bisogno di sentire e sentono nelle opere d’arte. Per questo sentire l’umanità si è prodigata con una dedizione stupefacente ovunque da sempre.


1.5 L’unità di stile

La caratteristica principe del modo di formare del procedimento tradizionalista (cioè dell’arte storica) è l’unità di stile. E’ il modo di narrare una realtà forte, un altro da sé forte, che è sempre, nella sostanza, uguale a se stesso, e di cui pertanto ci si può fidare. Un altro da sé che è la realtà del “senso comune”.20 L'unità di stile risponde a una esigenza profonda di fiducia in questa realtà, è garanzia della conservazione di un rapporto stabile con essa, stabilità di rapporto che è a sua volta garanzia di identità.

L'unità di stile è la prerogativa del modo di formare storico che si può definire in senso molto lato "classico"21. Si tratta di un modo di sentire e di produrre molto influenzato dagli archetipi formali della perfezione e della compiutezza: l'oggetto deve essere generalmente ben finito, anche nel dettaglio. Nel ben finito viene soddisfatto il bisogno di sicurezza, di stabilità, di identità dell'Autore e dell'interlocutore tradizionalisti. Questa compiutezza é prerogativa di tutta l"arte storica in generale, ma in particolare di quella classica (nel senso di opposta a romantica), ed è il risultato di un progetto forte (che vuol dire molto definito): quanto più il progetto è forte, tanto più l'oggetto è ben finito. Quanto più il progetto è invece debole (o addirittura assente) e prevale l'improvvisazione, tanto più l'oggetto può rimanere non finito, volutamente incompiuto o frammentario o disarmonico o disorganico, perché non c'è un progetto forte che a priori imponga quando e come debba essere ben finito.

Il procedimento tradizionalista, che fa parte di una cultura della sicurezza e della stabilità, tende ad avere un progetto forte, mentre i procedimenti modernista e avanguardista (e ovviamente anche quello postmodernista), che fanno parte di una cultura problematica o nihilista, tendono ad un progetto debole e alla improvvisazione, proprio perché in questa improvvisazione c'è più possibilità di inventare forme totalmente nuove (procedimento modernista).

Le prerogative fondamentali del procedimento tradizionalista (la narratività costitutiva dell’arte e l’unità di stile, categorie universali pur nelle loro differentissime manifestazioni), si evidenziano proprio nella loro messa in discussione da parte dei procedimenti modernista e avanguardista, in cui è influente l’ideologia sociologica del progresso.


1.6 Altre considerazioni.

Ma l'ideologia del progresso non ha cancellato il procedimento tradizionalista. Sono mutate in esso alcune funzioni sociali, come la committenza, il pubblico, le tecniche, gli stili, ecc., ma il procedimento rimane sostanzialmente lo stesso, finché dura la fiducia del senso comune nella stabilità delle cose del mondo, nel reale esistente per sé stesso, nel suo essere un altro da sé forte (come nella cultura di massa).

Nella società di massa del Capitalismo, l'arte del procedimento tradizionalista resiste in quella parte che non è ridotta del tutto a merce, poggiando principalmente su funzioni sociali estranee al mercato, e in quella parte di società non nihilista, che vive di solidi valori tradizionali cristiani o umanistici.

Per l'arte storica contemporanea del procedimento tradizionalista è improponibile, a rigore, il problema del nihilismo e del valore di scambio, perché, nonostante la mercificazione capitalistica la assalga da ogni parte e nonostante la maggior parte dei suoi prodotti sia anche "per le masse", tali prodotti non sono ancora "della massa": sono cioè opere d'arte tradizionali prodotte da élites per le masse, e non ancora prodotte dalle élites delle masse (del marketing), come nel procedimento postmodernista. Sono infatti pur sempre un prodotto di minoranze che, sul piano psicologico/antropologico "scelgono di essere infelici nelle grandi cose piuttosto che essere felici nelle cose piccole", che è invece ciò che sembrano volere le élites sui generis del procedimento postmodernista.

L'arte tradizionale storica è senz'altro il prodotto della élite “maschile” di una cultura patriarcale, che si è sempre sentita "accessorio" rispetto alla donna/madre/natura. Questa coscienza infelice l’ha indotta a fare la "storia" e le "grandi" cose (dalle piramidi alle guerre, dai capolavori ai lager), anche sacrificando, oltre a se stessa, popoli interi la cui cultura popolare chiedeva invece non di essere infelici nelle "grandi" cose, ma di essere felici nelle cose "piccole".

L'arte storica è stata ed è una di quelle "grandi" cose. Raccontava il “maschile” che si uccideva, i maschi che "morivano per non morire", per essere eternizzati nella Kléos (gloria) e nell'arte.

Il procedimento tradizionalista, nonostante le più appariscenti manifestazioni dei procedimenti modernista e avanguardista, rappresenta pur sempre, nell’arte contemporanea, la normalità (qualitativamente) e la maggioranza (numericamente). E' normale in quanto erede diretto del procedimento di tutta l'arte storica, di contro alla anormalità dei procedimenti modernista e avanguardista (nel senso che questi ultimi procedimenti non sono affatto l'ultima tappa di uno sviluppo lineare (normale) dell'arte storica, bensì una devianza dalla norma). E' poi maggioritario come numero di opere, se si considera che appartengono ad esso non solo singoli "artisti" che si definiscono tradizionalisti, ma la maggior parte della letteratura, del cinema, del jazz e dintorni, del fumetto e della illustrazione editoriale e dei video e delle vignette e della pubblicità, ecc. ecc., insomma tutta quella parte della produzione che, pur appartenendo alle comunicazioni di massa, ha qualità di artisticità.

Infatti il termine "cultura di massa" è, rispetto ai problemi dell'arte, abbastanza improprio: si dovrebbe parlare semplicemente di "cultura tradizionalista", cioè di una cultura in cui, per il rapporto dei soggetti con una realtà che è ancora un altro da sé forte, vige il procedimento tradizionalista. Può infatti sembrare strano dire che il discendente diretto di Raffaello non è il modernista Picasso, ma un illustratore o un regista; ma lo è molto meno se si pensa che oggi Raffaello si sarebbe molto probabilmente dedicato alla regia filmica, ottenendo gli ottimi risultati di tantissime opere del cinema, che è il linguaggio specifico più significativo della nostra epoca come lo era la pittura nell'epoca di Raffaello.

La cultura di massa comprende ormai quasi tutta la cultura, ed è al suo interno che vengono prodotte, fra innumerevoli oggetti non artistici, anche tante opere d'arte, nel procedimento tradizionalista. Certamente queste opere risentono della pressione della cultura di massa, ma non altrimenti di come sempre tutte le opere risentivano della pressione del potere imperante.22

Se si prendesse per vera la proposizione sociologia dello storicismo relativistico per cui "l'arte è ciò che gli uomini chiamano arte", l'arte storica (del procedimento tradizionalista) sarebbe, in definitiva, solo una "impostura" di pochi potenti (una élite di committenti e Autori) sui popoli. Ma questa proposizione non è vera. Ciò che sorprende è che nel corso dei secoli le opere che piacevano ai potenti (élite di committenti e Autori) di una cultura, piacevano anche alla élite delle altre culture. Le differenze di giudizio sulle opere non esistono tanto fra culture diverse nello spazio e nel tempo, quanto fra competenti e non competenti all'interno di una stessa cultura. Vuol dire che esiste nella storia, a un certo livello di competenza, una costante dell'artistico, effetto di una qualità di artisticità dell'oggetto. L'opera d'arte attraversa il tempo e "...non si rivolge soltanto a una personalità determinata dallo stato momentaneo della società, bensì a ciò che nell'uomo è generalmente umano: una tale opera fornisce le prove del suo rapporto con l'essenza antropologica dell'uomo".23

Si dice che non esiste lo “sguardo innocente”, non condizionato dal proprio gusto e dalla propria cultura. Sembra, nel nostro mondo, una ovvietà. Eppure, imparare a riconoscere l’artisticità di un’opera, nella “esperienza estatica”, vuol dire sopratutto imparare a liberarsi da quei condizionamenti, “affidandosi” alle opere, le più differenti nel tempo e culturalmente, in un approccio “il più innocente possibile”. Semplicemente frequentandole assiduamente. Si tratterebbe comunque del “senso comune”24 di coloro che hanno coscientemente bisogno della forma artistica. Solo se si tien conto di ciò, si può anche ammettere che “Quando guardo Giotto o Masaccio, Piero o Leonardo sempre c’è una interferenza culturale tra me e il dipinto che sto guardando. Non può essere altrimenti, perché il puro sguardo, innocente e insieme conoscente, non esiste”.25. Ma di certi autori “santificati” si può anche giustamente affermare: “Come si leggono meglio se si finge di ignorare la concettualizzazione sommersa e il commento che si è quasi sostituito al testo originale! Che senso di liberazione si prova a stare in superficie! E come più abbagliante questa si rivela, tanto che essi stessi, quegli autori, sembrano liberati! E liberato il testo dal sottotesto soverchiante!”26

Si deve insistere su questa "unicità" dell'operazione arte nelle diverse culture e nel tempo, anche se appare "scandalosa" al relativismo storicistico e sociologico e alla Ermeneutica, discipline protese a studiare il fenomeno arte solo dal punto di vista del contenuto e dell'interlocutore. Perché l'Autore "sa" tutto ciò che di "eguale" c'è nel fare suo e in quello di un "primitivo" e di un egizio e di un Bach e di un Joyce.

Si sa che il nostro concetto di opera d'arte è recente, e il fatto di estendere questo nostro concetto a oggetti di altri tempi e altre culture è stato considerato una operazione di acculturazione, una forma di imperialismo culturale. Per esempio si sarebbe piegato lo statuto religioso cultuale di una scultura lignea primitiva a quello nostro, "prevaricante", di opera d'arte. Questo eurocentrismo sarebbe stato il frutto della ignoranza della vera funzione originale dell'oggetto, e sarebbe mistificante della sua vera identità. Non è così.

Le funzioni sociali (funzioni genetiche terze27 accompagnano la funzione genetica prima delle opere contemporanee nello stesso esatto modo che l’accompagnavano nelle opere antiche. La funzione "cultuale" oggi più diffusa è quella di intrattenimento, che accompagna la maggior parte della narratività (nei romanzi, film, fumetti ecc.), non altrimenti di come il culto magico o religioso accompagnava le opere d'un tempo (ciò è pacifico, a meno che non si voglia negare per principio, a priori, a tutte le opere di intrattenimento la qualità di artisticità; ma allora sì, si tratterebbe di imperialismo culturale). Invece ciò che conta è che la funzione genetica prima, di procurare l’esperienza della artisticità, è sempre la stessa.

Il fatto che altre culture non abbiano analizzato l'operazione produttiva dei loro oggetti come ha fatto il razionalismo occidentale, non vuol dire che quegli oggetti non abbiano la stessa qualità di artisticità dei nostri. Anzi, l'analisi di quegli oggetti dal punto di vista moderno dell'artisticità ha aiutato a comprenderli e decifrarli meglio, a sviluppare le nostre teorizzazioni sull'arte e finalmente ha influito sulla nostra arte stessa.

Tutte le culture hanno prodotto oggetti che la nostra cultura oggi considera artistici, anche senza che esse li considerassero tali, ma solo oggetti del culto o della celebrazione ecc.. Vuol dire semplicemente che l'attenzione per quegli oggetti da parte degli "interessati" (addetti ai lavori) di quelle culture si è limitata alle loro funzioni genetiche terze (sociali), esattamente come fanno oggi tutti gli addetti ai lavori della sociologia, che sono la maggioranza, perché, come allora, come sempre, si occupano solo degli interessi della committenza e del pubblico. Se per ipotesi fra qualche millennio qualcuno dovesse basarsi su ciò che dice la maggior parte degli addetti ai lavori attuali, non riuscirebbe a capire nulla della situazione dell’arte contemporanea.

Alcune culture hanno prodotto oggetti artistici senza nemmeno destinarli alla fruizione: per esempio le opere degli egizi contenute nei sepolcri. Molto probabilmente quelle opere, nella loro funzione sociale (genetica terza), dovevano essere "fruite" dagli dei o dal morto. Ma anche se ciò non fosse vero, non cambierebbe nulla. La formazione di quegli oggetti è da sempre, e per tutte le culture, la stessa operazione. Gli oggetti sono differenti, ma l'operazione è la stessa, e quindi anche il modo corretto di sentirli e di giudicarli è lo stesso.

Per rendersi conto che quegli oggetti non differiscono nella loro qualità di artisticità dalle nostre opere d'arte, basta calarsi nei panni dell'Autore. I problemi linguistici che un Autore deve affrontare e risolvere oggi sono gli stessi che ha dovuto affrontare sempre. Le soluzioni sono diverse (come lo sono anche fra contemporanei) per le differenze del Myhtos, ma "imparentate" nella Poiesis. E succede spessissimo che una soluzione dell’arte storica antica sia riproposta da un contemporaneo del procedimento modernista, anche senza che egli conosca quella antica.

E si dice anche di opere antiche che sono attuali: ciò, dal punto di vista strettamente artistico, é tremendamente ovvio: l'opera d'arte è sempre attuale, per il semplice fatto che non ha progresso. Le opere d’arte sono tutte sempre contemporanee.

Quindi non è vero che oggi "tutto" è cambiato, che l'arte si è liberata dalla funzione genetica seconda, quella per cui un artista è indotto a fare arte. Per l'arte del procedimento tradizionalista la funzione genetica seconda rimane sempre quella di narrare un altro da sé forte. Nell'ambito del procedimento tradizionalista (ma queste considerazioni valgono anche per il procedimento modernista e pertanto, di fatto, per tutta l'arte), nessun Autore si mette al lavoro veramente con l'intenzione: "ora faccio un opera d'arte". Lo fa sempre, anche inconsciamente, ma inesorabilmente, con l'intenzione: "ora "dico" questo o quello" (narrazione). E soltanto dopo, se è Autore28, subentra la consapevolezza di fare un'opera d'arte.

Nel saggio "La fine della Modernità" 29, Vattimo scrive: "...la morte dell'arte significa due cose: in senso forte, e utopico, la fine dell'arte come fatto specifico e separato dal resto della esperienza, in una esistenza riscattata e reintegrata; in senso debole o reale, l'estetizzazione come estensione del dominio dei mass-media". Questi due argomenti verranno trattati nel numero 3 di questa rivista, il primo punto nel capitolo sul procedimento avanguardista, il secondo nel capitolo sul procedimento postmodernista, facendo riferimento all'estetica filosofica del Pragmatismo americano e all'arte come "fatto estetico integrale". Ma rispetto al secondo punto va detto subito che l'estetizzazione come estensione del dominio dei mass-media, non comporta affatto automaticamente la morte dell'arte del procedimento tradizionalista. Neppure l'immensa quantità degli oggetti prodotti dal procedimento tradizionalista (che pure abbassa lo standard medio della produzione) annulla l'artisticità, che si perpetua e rinnova. Si tratta piuttosto di individuare, fra i diversi linguaggi specifici, quelli oggi più funzionali alla narratività tradizionalista, come il cinema, e quelli meno funzionali ad essa, e pertanto forse "moribondi", come la pittura. Ogni epoca e cultura ha avuto il suo linguaggio specifico privilegiato.

Dunque il procedimento tradizionalista non è ancora investito direttamente dalla problematica della morte dell'arte; presenta invece ben altri limiti. Anzitutto il suo essere tradizionale comporta la narrazione dell'esistente (sistema sociale ecc.), garantendone la durata. L'arte per se stessa non è mai stata immediatamente rivoluzionaria, ma solo mediatamente, come evoluzione dell’Io in una totale obbligata esposizione di sé. Anche quando assume funzioni critiche, per esempio di satira politica e di costume, il procedimento tradizionalista non è di fatto eversivo. L’eversione sta solo nel nuovo della forma, e ciò è senz'altro il grande merito dei procedimenti modernista e avanguardista. Inoltre il procedimento tradizionalista è molto esposto da un lato alla produzione del Kitsch, dall'altro alla salvaguardia della cultura accademica e di potere. Ma, a questo proposito, si deve dire che la maggior parte del pubblico "progressista" e "antitradizionale", che fa mostra di apprezzare le opere del Modernismo e dell'Avanguardismo, usa in verità quotidianamente in massima parte opere del procedimento tradizionalista, nel cinema e nei romanzi e nel teatro e nei concerti ecc., poiché è in queste opere che questo pubblico trova quella sicurezza e legittimazione, che poi gli permettono "il lusso" di farsi "progressista, antitradizionalista e rivoluzionario" nella fruizione degli altri procedimenti. In altre parole, c'è un pubblico che fa esperienza contemporaneamente di procedimenti diversi (così come ci sono Autori che producono contemporaneamente in procedimenti diversi), ma il cui punto di riferimento principale rimane pur sempre il procedimento tradizionalista.

Scrive ancora Vattimo:" Alla morte dell'arte per opera dei mass-media, gli artisti hanno risposto spesso con un comportamento, che si colloca anch'esso sotto la categoria della morte in quanto appare come una sorta di suicidio di protesta: contro il Kitsch e la cultura di massa manipolata, l'estetizzazione a livello basso, debole, dell'esistenza, l'arte autentica si è spesso rifugiata in posizioni programmaticamente aporetiche, rinnegando ogni elemento di fruibilità immediata delle opere- il loro aspetto "gastronomico" -, rifiutando la comunicazione, scegliendo il puro e semplice silenzio. E' questo il senso esemplare che, come è noto, Adorno vede nell'opera di Beckett, e che in gradi diversi ritrova in molta arte d'avanguardia." Quasi tutto vero, purtroppo. "Purtroppo" perché, anzitutto, solo una enorme presunzione pari ad altrettanta mediocrità e ignoranza ha permesso agli artisti autodefinitisi "autentici" di considerare tutta la produzione del procedimento tradizionalista della cultura di massa un enorme Kitsch, tale da indurli al "nobile" gesto del suicidio (totalmente fasullo nei fatti) per protesta. In verità, i grandi veri avanguardisti della "morte dell'arte" come Duchamp o Malevic non hanno "ucciso" l'opera d'arte solo per difenderla dal mercato della cultura di massa, come pretenderebbe la sociologia, ma per ben più profondi motivi linguistico-esistenziali personali.

Né la storia ha dato ragione alla "estetica negativa" di Adorno per cui "il criterio in base a cui si valuta la riuscita dell'opera d'arte è la sua maggiore o minore capacità di negarsi": la negazione dell'opera d'arte ha fatto parte soltanto del progetto, molto coerente, delle Avanguardie storiche, ma non del Modernismo (e meno ancora ovviamente del Tradizionalismo) che invece alla "riuscita" dell'opera d'arte ha sempre strenuamente tenuto.

Queste imprecisioni si devono alla perdurante confusione, in gran parte voluta e interessata, potremmo dire ideologica, fra i concetti di Modernismo e Avanguardia. Infatti Beckett non è un Autore del silenzio e della incomunicabilità nel senso avanguardista della morte dell'arte, ma un grande Artista modernista che ha "gridato il silenzio".

Dice ancora Vattimo 30: "...accanto a questi fatti, bisogna non dimenticarne altri, che anzi costituiscono la -per molti versi sorprendente - sopravvivenza dell'arte nel suo senso tradizionale, istituzionale. Ci sono ancora infatti, teatri, sale da concerto, gallerie; e artisti che producono opere che si lasciano collocare in modo non conflittuale entro queste cornici; ciò, sul piano teorico, significa però: opere la cui valutazione non può rifarsi sopratutto e esclusivamente alla loro capacità di autonegazione. Di fronte a fenomeni di morte dell'arte, cioè, si pone, come fenomeno alternativo e ad essi irriducibile, il fatto che si danno ancora "opere d"arte" nel senso istituzionale........A questo deve riflettere con accanita attenzione la teoria, per la quale il discorso della morte dell'arte può rappresentare anche una comoda scappatoia, comoda in quanto semplificante e tranquillizzante nella sua metafisica rotondità".

Se quello di Vattimo può considerarsi il riconoscimento della esistenza di un procedimento tradizionalista, deve tuttavia essere chiaro che fra queste opere d'arte che perdurano ci sono anche quelle del procedimento modernista, che rappresentano una strenua resistenza degli Autori alla morte dell'arte e che non si valutano affatto per la "maggiore o minore capacità di negarsi" di Adorno (che appartiene invece al procedimento avanguardista).


2. Il procedimento modernista.

"...un fare che, mentre fa, inventa il modo di fare." Pareyson.

Procedimento modernista e procedimento avanguardista, Modernismo e Avanguardismo, sono risposte differenti alla crisi della Modernità umanista. Ma l'origine comune comporta a volte affinità che rendono difficile definire esattamente se e quando un Autore sia modernista o avanguardista; a volte invece comporta differenze così sostanziali, per cui si rimane sbalorditi da come certi Autori possano essere stati accomunati in una confusa e generica categoria di Avanguardia. Pertanto le differenze saranno qui definite "in extremis", in modo da renderle più comprensibili.

Il procedimento modernista viene chiamato modernista, e non moderno, perché ripropone istanze della Modernità, ma in un'ottica assolutamente problematica. Non va confusa la Modernità, che é un concetto che definisce tutta una cultura, una visione del mondo, con il procedimento modernista di cui si parla, che è invece la più significativa testimonianza e denuncia, nell'arte, della crisi, forse definitiva, di quella Modernità.

Il procedimento modernista è l’avventura della “discesa agli inferi” nell’inconscio individuale e collettivo, come altro da sé forte, intrapresa da un certo numero di artisti, per reinventarsi una identità, senza la quale non si può creare l’opera d’arte.

Questa definizione illustra il punto di vista dell’Autore, in un’ottica antropologica e psicologia. Essa esige pertanto una digressione in due capitoli sul problema della identità: 1. L’identità. L’Altro. L’arte come Altro.


2.1. L’identità. L’Altro. L’arte come Altro.

“Il desiderio dell’uomo trova il suo senso nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro”. (Lacan) 31

L'identità, come identità personale dell'Io, o meglio come psicologica "prima consapevolezza del senso di essere" 32, è qualcosa che sembra non abbandonarci mai. E' invece a volte intensa e presente, a volte rarefatta. Paradossalmente, essendo in fondo l'identità la prima cosa che per l'homo sapiens sapiens veramente conti

Succede a tutti, "primitivi" e contemporanei, di perdere il senso di sé. Secondo De Martino 33 le pratiche magiche dei primitivi altro non sono se non terapie istituzionalizzate dalla comunità, gestite dagli sciamani, contro questa "crisi della presenza", questo rischio di dissoluzione dell'Io.

L’identità si sente sia nella uguaglianza con le cose e con gli altri (nella “partecipazione mistica” primitiva, nell’inconscio, nell’infanzia, nella fede ecc.: identità inconscia) sia nella differenza dalle cose e dagli altri (dove il riconoscimento della propria identità implica il riconoscimento dell’altro da sé, cosa o persona: identità conscia). Ciò accade nello stesso individuo, da sempre, secondo le occasioni. E da sempre artigiani e artisti (nonché sciamani, capi, sacerdoti, ecc.) hanno chiara la loro identità non solo per uguaglianza, ma anche per differenza. Quando fra i primitivi un artigiano o un artista inventa un nuovo modo di formare (anche se l’ideologia della tribù gli impone la continuità nella tradizione, anzi proprio a ragione di questo) è ben conscio della propria identità per differenza dal modo di formare degli altri (originalità di Autore).

L’identità per uguaglianza e l’identità per differenza si intrecciano.

Un individuo, fisicamente come corpo e psichicamente come Io e inconscio, è in continuo mutamento, ma conserva la memoria di sé, la propria identità come uguaglianza. Da un punto di vista fisiologico la memoria individuale è racchiusa nei miliardi di molecole di DNA, ricche di informazioni ereditarie che nella vita vengono utilizzate solo in minima parte, e sono informazioni che riguardano tutta la specie. 34 Da un punto di vista psicologico, la memoria di sé e della specie è racchiusa nell'inconscio individuale e collettivo.

Ma la memoria di sé si spegne in assenza dell'altro da sé. Mentre è rafforzata dal continuo incontro/scontro con gli infiniti altro da sé.

Un Io senza l'altro da sé non esiste. Sarebbe allo stato arcaico, indifferenziato. L'uomo non riesce a vivere, sentire se stesso se non in rapporto con un altro da sé, da lui oggettivato in oggetto. Se un uomo dice: "Io sono un uomo", questo essere "uomo" vuol dire veramente qualcosa come differenza da una “cosa” oggettivata in oggetto altro che egli non è: l’altro individuo, pianta, insetto, scimmia, casa, nuvola, idea, amore, morte, Dio, mistero, l'ignoto, ecc. ecc..

Un uomo solo in modo assoluto non è concepibile. Un uomo che si venisse a trovare in un'isola deserta dopo un certo tempo "esaurirebbe se stesso" con l'esaurirsi della memoria della persona, dell'Io che era. Solo un altro da sé fortissimo, resistentissimo nella memoria, come forse l'idea di Dio, potrebbe permettergli di conservarsi in memoria per l'intera vita. Non si sa cosa sarebbe stato di Robinson Crusoe, se non fosse apparso Venerdì. Si sa invece dell'indebolimento dell'identità in una situazione di prigionia o segregazione, dove non c'è l'esperienza del mutevole altro.

Dice Baudrillard 35: "Si parla di alienazione. Ma la peggior alienazione non è di essere spossessato dall'altro, ma spossessato dell'altro, di dover produrre l'altro in assenza dell'altro, e quindi di essere rinviato continuamente a se stesso e all'immagine di se stesso".

Dunque l’identità, se tende alla uguaglianza nella sicurezza della memoria di sé, tende anche a mutare in "tutti i possibili Io", in una autocreazione continua nel continuo differente rapporto con gli altro da sé sempre differenti.

L’identità è riconosciuta e mantenuta "costante" proprio nell'essere il soggetto continuamente "modificato" nell'incontro/scontro con le altre identità. La comprensione di sè del soggetto avviene proprio in queste variazioni, perché è nel percepire le variazioni di sè che il soggetto può percepire di più un sè costante e fisso, implicito, presupposto, "vero", sottostante le variazioni. E' come un nudo, che può essere vestito di differentissimi, infiniti panni che sono le sue variazioni, ma che sotto percepisce se stesso sempre come lo stesso nudo.

Esso riesce a percepirsi, a riconoscersi, appunto perché è vestito sempre con mutevoli differentissimi panni.

L'identità è un nudo/memoria che si veste continuamente di panni differenti.

Una condizione di fissità del "nudo", senza variazioni di panni, si chiama routine. La routine è il non succedere dell'incontro/scontro con l'altro da sè. L'incontro/scontro è una rottura della routine quotidiana. Essa produce anzitutto stupore, meraviglia. Ci si stupisce, e si esce dalla routine quotidiana, quando ciò avviene. E più l'altro da sè è "stupefacente", più esso rafforza l'identità del soggetto, con tutte le connotazioni date dagli infiniti altro da sé possibili.

L'identità dell'Io non si rafforza dunque nel “cogitare” l’uguaglianza "io sono io", ma nell'incontro/scontro con l'altro da sé che è sempre differente, e che mi fa sempre differente, e perciostesso più costantemente Io. La differenza che esiste fra le identità non le distrugge, anzi le rende più forti e identificabili.36 Anche il tempo, che modifica continuamente la vita, se vissuto come vita estetizzata37 e come narrazione estetizzata (retorica e riti), rafforza l'identità.

L'uomo sente se stesso come narrazione degli altri uomini. Egli ha un significato in quanto significato della narrazione degli altri uomini.

E c'è chi dice, fra gli scienziati38, che: "Il mondo è un enigma che Dio ha creato per difendersi dalla sua terribile solitudine e dalla paura della morte". Dio avrebbe creato un altro da sé, il mondo, per poter esistere. Per poter avere la sua identità di Dio. Neppure Dio (concepito dalla mente umana) può dire: "Io sono Io" (cioè Tutto), ma esiste solo in rapporto con un altro da sé che è il mondo.

Dunque l’Io soggetto si riconosce come identità nelle variazioni indotte dall'incontro/scontro con le altre identità. Ma l'Io non potrebbe mantenere l'identità se con le altre differenti identità che la determinano non avesse in comune una commisurabilità (una uguaglianza). Aristotele39: "...ciò che è differente da qualcosa è sempre differente per qualche cosa, tanto che necessariamente ci deve essere qualcosa di identico, per cui sono differenti". Gli uomini possono avere differenti identità, possono essere differenti, perché hanno fra loro una uguaglianza: sono uguali nell’essere uomini, formano un sistema.

Per poter incontrarsi/scontrarsi come altro da sé per rafforzare l’identità e riconoscersi come differenze, le differenti identità devono far parte di un sistema, che è la loro uguaglianza. Il “sistema” impedisce allora l'assurdo del relativismo estremo in cui le cose diventano "niente", perché non riconoscibili.

Reciprocamente, i sistemi (le uguaglianze, gli universali) possono essere riconosciuti soltanto nell'incontro/scontro delle differenze. E' ciò che intende Levi-Strauss quando afferma che le sottostanti costanti universali antropologiche (strutture) si individuano nelle relazioni delle differenze dei fatti sociali.

Anche l'arte (l'artisticità) è una costante universale antropologica (sistema antropologico dell'arte) sottostante alle differenze, che sono le opere. E’ proprio la molteplicità e differenza delle opere d’arte a fondare l’esistenza oggettiva della qualità di artisticità come loro denominatore comune.

Si può dire allora che l’identità per differenza è veramente “un processo di invenzione di identità”.

Si indica qui con il termine altro da sé (corsivo con la a minuscola) ogni “cosa” oggettivata in oggetto, e con il termine Altro (corsivo con la A maiuscola) l’altro dalla razionalità, intesa sia come strumento sia come razionale fondamento dell’essere nella metafisica occidentale.

Tutto può essere altro da sé che dà identità, se percepito in un certo modo. Ma quando lo si “possiede” nel “cerchio di luce della razionalità metafisica”, lo si può anche distruggere: quando è spiegato, misurato, calcolato, matematizzato, logicizzato, ecc. (e non è più allora stupefacente e meraviglioso). Quando insomma è consumato dalla routine quotidiana.

Questo non vuol dire che le “cose” non possano essere investite dalla ragione strumentale, che le riconosce senza distruggerle come altro da sé. “Significa ragione come metodo e non come sistema, uso dell’intelligenza critica”.40

L’Altro dalla razionalità è ciò che la razionalità non ha, non sa, non è: ciò che la razionalità desidera.

Questo desiderio dell’Altro è anch’esso un desiderio di identità, che si esprime in tutte le manifestazioni immediate possibili (dall'al di là della genesi dell'universo (nella fisica occidentale) alla Legge Mistica nel Buddismo, dall'Altro come "avventura" all'Altro come differenza sessuale, dall'inconscio senza spazio/tempo al tempo fermo che è l'opera d'arte.

Questo Altro è ovunque, nel presente come l'”altrove” (l'inconscio) da cui vengono le immagini della immaginazione, nel futuro come l'"avventura" e nel passato come l'"origine".

La scienza lo chiama l'evento, unico, irriducibile alla spiegazione: la "discontinuità tra natura inerte e biosfera", 41 cioè l'Altro definitivo, che non si può spiegare. La scienza è ben consapevole che tutto ciò che essa può spiegare è sempre "misurato" (matematizzato) all’interno della prigione della razionalità.

Si tratta allora di uscirne, e di recuperare la dimensione immaginifica (che ha poco a che fare col misticismo, ma è invece memoria 42), ma senza con questo buttare i doni acquisiti della razionalità e della scienza, come strumenti. Si tratta di recuperare l’inquietante, l’enigmatico, l’avventura, la differenza, la pluralità. E tutto ciò è nell’arte come artisticità.

Si intende per immagine della immaginazione la "presenza" di una “cosa” nella mente. Presenza non certo solo visiva, o tattile, o uditiva, ma pienamente mentale (immagine mentale).

C'è nella psiche un fluire di immagini, ma queste immagini della immaginazione sono soggettive solo dal punto di vista della logica razionale. Dal punto di vista psicologico sono consonanze del soggetto uomo con una più profonda consistenza delle “cose” del mondo, una consistenza antropica, in rapporto alla storia di tutta l'umanità. Queste immagini non sono arbitrariamente interpretabili in un modo o nell'altro per la mediazione del linguaggio concettuale relativo alle singole culture, ma sono immediatamente l'"immagine del mondo" dell'homo sapiens sapiens. 43

Per questo alcuni filosofi, di fronte alle insufficienze e alle aporie della ragione, che non può conoscere l’Essere, perché si morde la coda solo razionalmente interpretandolo, per sentire l'Essere si affidano all'Altro dalla ragione. Per esempio, appunto, all'arte, dove l'Essere si manifesterebbe attraverso quella apertura sull'Essere (l’Altro) che è l'opera d'arte.

L'arte è uno stupendo, nel senso che stupisce, altro da sé. Per quel tanto che sfugge a ogni spiegazione del pensiero razionale, è un Altro.

Si tratta di recuperare la consapevolezza che l'arte, l’artisticità, è anzitutto Altro: una esperienza dell'Altro.44

Questo luogo dove il pensiero razionale non può arrivare è il luogo che si definisce: il prerazionale, il sacro, il dio, la follia, l’inconscio, la Grande Madre, l’”Aperto”, il non senso, ecc.: cioè l’Altro dalla ragione. La riuscita artistica di un’opera non dipende tanto dalla volontà della ragione del singolo, quanto da questo Altro. Ciò è molto importante perché, nella produzione da parte dell’Autore e nella ricezione da parte dell’interlocutore della riuscita dell’opera, c’è la lucida coscienza della presenza dell’Altro, e di creare qualcosa insieme all’Altro.45 Da qui la dimensione trascendente il singolo (pertanto sacra e divina per gli antichi) di una operazione che la ragione da sola non può fare, e non può spiegare.

Allora ai filosofi dell’estetica si deve porre questa domanda: "perché guardi e non vedi?" In genere la filosofia, nella sua razionalità, interroga se stessa, "guarda" solo se stessa, non "vede" l'arte di cui si occupa.

Così fu la prima volta di Orfeo, quando si volse a guardare con l'occhio della curiosità razionale l'Arte/Euridice, perdendola. Eppure alle porte dell'Ade il cànide Cerbero l'aveva fermato, mostrandogli la contraddizione: se l'arte è Altro dalla razionalità, come può lo sguardo della ragione possederla senza farla morire?

Le forme della verità si vedono solo con la coda dell'occhio.

Se l'arte è un Altro, viene da altrove. Non si dice forse: "mi è venuta una idea", da questo altrove? Non è così che guardando una folla, o il cielo, o i treni, si può invece vedere con la coda dell'occhio una immagine di idea, e coglierla, e narrarla, prima che infedelissima ci sfugga? Non è per questo che Joyce e Sartre e Pessoa e Borges sedevano nei caffé di Trieste e Parigi e Lisbona e Buenos Aires a cogliere l'Altro che dall'altrove entrava e nell'altrove usciva, e imprevedibilmente se na stava, e poi di nuovo andava?

E' da questo altrove che l'Arte/Euridice si manifesta e ci parla.

C'è in giro il sospetto, da tempo, che sempre meno gli uomini riescano a innamorarsi dell’Arte/Euridice, sia come Autori, sia come interlocutori. Il disamore è implicito nella stessa proposizione: "l'arte è ciò che gli uomini chiamano arte". Se tutto può essere arte, l'arte non è niente. Niente di cui ci si possa innamorare. Ciò che noi facciamo, come mera espressione della razionalità della Tecnica, per noi ma da soli, senza rapporto con l’Altro, finisce per essere “niente” e distruggere la nostra identità.

Essere niente vuol dire: gli uomini non credono che l’arte possa ancora loro raccontare il mondo (la vita) da fuori. Il mondo (la vita) essendo ormai così complicato e confuso da non poter più essere raccontato da fuori della razionalità, cioè da quella parte di noi che trascende l’individuo, in quanto Altro come inconscio collettivo e memoria antropologica. Non un fuori metafisico o mistico, al di là del mondo (la vita), ma solo un fuori dalla razionalità, nel mondo (nella vita) di tutti.

Gli uomini non riconoscono più nell’arte l'Altro dalla propria coscienza individuale, e nell'opera d'arte l'immagine dell'Altro. Il loro Io si esaurisce tutto intero nel mondo individuale, nella mondanità del singolo. Per cui è solitudine. Senza identità.

Da decenni l'arte come Altro, la “cosa” nella distanza che dà identità, si perde. Come se i mortali non sapessere più amare Euridice, avere bisogno di lei.


2. 2. La perdita d’identità. La solitudine dell’Occidente.

“Da quando la scienza ha dimostrato che la terra è rotonda, e che non è vero che il sole gira intorno alla terra ma è vero il contrario, è come se tra i sensi e il mondo esterno si fosse rotto un patto secolare, e fosse subentrato il sospetto. Sì, è vero, i sensi mi dicono che la terra su cui cammino è piatta, ma in realtà non è così, essi mi ingannano. E se non è più vero quello che l’esperienza mi faceva apparire vero vuol dire che tra me e il mio corpo, tra me e me stesso, si è aperta una frattura incolmabile, e che a un io naturale, dotato di senso comune e di percezione immediata, è subentrato un io concettuale che continuamente lo contraddice e lo corregge. Resta comunque vero, però, che il primo è radicato dentro di noi sin dalla preistoria mentre il secondo è relativamente giovane, ha appena qualche secolo. E a volte mi pare che il millenario senso comune, soggiogato dall’appena secolare intelletto concettualizzatore, si ribelli in certe occasioni e lanci appelli e segnali disperati per affermare la sua verità evidente ma non riconosciuta contro quello che a torto o a ragione a lui sembra un sopruso, un’astratta e ingiusta sopraffazione.” (...)“Non c’è più nulla cui può appoggiarsi, nessun punto di riferimento sicuro: se dei sensi non ci si può più fidare si è obbligati, per arrivare a comprendere una verità, a seguire le vie complicate di concetti, che svolgono ragionamenti astratti, a volte difficili da seguire fino in fondo, e che non tutti sono in grado di fare. E dunque non solo tra me e me stesso si è creata quella frattura che gli psicanalisti hanno chiamato l’io-diviso (conseguenza di tale situazione), ma anche tra una categoria di persone, e anche tra gruppi di nazioni: quelli che hanno la possibilità di impadronirsi del sapere scientifico trasformandolo in tecnologia, e quelli che non sono in grado di farlo. Quando questo avviene vuol dire che l’uomo, l’uomo comune, non è più in grado di controllare le forze da cui è dominato, nemmeno con l’immaginazione. Tale è la situazione in cui ci troviamo oggi.” (R. La Capria, “La mosca nella bottiglia”, Rizzoli 1996, p. 7)

"Mentre Dio andava lentamente abbandonando il posto da cui aveva diretto l'universo e il suo ordine di valori, separato il bene dal male e dato un senso a ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. Questo, in assenza del Giudice supremo, apparve all'improvviso in una temibile ambiguità; l'unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni, e con esso il romanzo, sua immagine e modello.

Intendere, come fa Descartes, l’io pensante come il fondamento di tutto, essere dunque soli di fronte all’universo, è un atteggiamento che Hegel, a giusto titolo, giudicò eroico.

Intendere, come fa Cervantes, il mondo come ambiguità, dove affrontare, invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi), possedere dunque come una sola certezza la saggezza dell’incertezza, richiede una forza altrettanto grande.

Cosa vuol dire il grande romanzo di Cervantes? Sull’argomento si è scritto molto. C’è chi pretende di vedere in questo romanzo la critica razionalista del fumoso idealismo di Don Chisciotte. Altri vi vedono l’esaltazione di questo stesso idealismo. Entrambe le interpretazioni sono sbagliate, perché vogliono trovare alla base del romanzo non un interrogativo, ma un assunto morale.

L’uomo sogna un mondo in cui il bene e il male siano nettamente distinguibili, e questo perché, innato e indomabile, esiste in lui il desiderio di giudicare prima di aver capito. Su questo desiderio sono fondate le religioni e le ideologie. Esse possono conciliarsi con il romanzo solo traducendo il suo linguaggio di relatività e di ambiguità nel loro discorso apodittico e dogmatico. Religioni e ideologie esigono che qualcuno abbia ragione: o Anna Karenina è vittima di un despota ottuso, o Karenin è vittima di una donna immorale; o K., innocente, è schiacciato da un tribunale ingiusto, o dietro il tribunale si nasconde la giustizia divina e K. è colpevole.

In questo “aut-aut” è racchiusa tutta l’incapacità di sopportare la sostanziale relatività delle cose umane, l’incapacità di guardare in faccia l’assenza del Giudice supremo. Ed è questa incapacità che rende la saggezza del romanzo (la saggezza dell’incertezza) difficile da accettare e da capire.

Don Chisciotte partì per un mondo che si spalancava davanti a lui. Poteva entrarvi liberamente e tornare a casa quando voleva. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato. L’inizio di Jacques le Fataliste sorprende i due eroi già in cammino: non sappiamo né da dove vengono, né dove vanno. Si trovano in un tempo che non ha né principio né fine, in uno spazio che non conosce frontiere, al centro di un’Europa per la quale il futuro non potrà mai finire.

Mezzo secolo dopo Diderot, in Balzac, il lontano orizzonte è scomparso come un paesaggio dietro a quegli edifici moderni che sono le istituzioni sociali: la polizia, la giustizia, il mondo della finanza e del crimine, l’esercito, lo Stato. Il tempo di Balzac non conosce più l’ozio beato di Cervantes o di Diderot. E’ ormai a bordo del treno che chiamano Storia. Salirvi è facile, il difficile è scenderne. Pure, questo treno non ha ancora nulla di spaventoso, anzi ha delle attrattive: a tutti i passeggeri promette avventure, e con esse onori e trionfi.

Più tardi ancora, per Emma Bovary, l’orizzonte si restringe fino a diventare una sorta di muro. Le avventure stanno dall’altra parte e la nostalgia è insopportabile. Nella noia della quotidianità, sogni e fantasticherie acquistano importanza. L’infinito perduto del mondo esterno viene sostituito dall’infinito dell’anima. Fiorisce così la grande illusione dell’unicità insostituibile dell’individuo, una delle più belle illusioni europee.

Ma il sogno dell’infinito dell’anima perde la sua magia nel momento in cui la Storia, o quel che ne è rimasto, forza sovrumana di una società onnipotente, s’impadronisce dell’uomo. Non gli promette più onori e trionfi, ma al massimo un posto di agrimensore. K. di fronte al tribunale, K. di fronte al castello, che cosa può fare? Molto poco. Può almeno sognare, come faceva Emma Bovary? No, la trappola in cui si trova è troppo terribile e assorbe come un aspiratore tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sentimenti: può pensare soltanto al suo processo, al suo posto di agrimensore. L’infinito dell’anima, se mai esiste, è diventato un’appendice quasi inutile dell’uomo” (M. Kundera, “L’arte del romanzo”, Adelphi 1988, p. 19).

La grande avventura della Modernità umanistica, il cui tramonto nella attuale Postmodernità é annunciato dai 150 anni dei procedimenti modernista e avanguardista nell'arte, comincia in Europa verso il '400. La razionalità di origine greca dell’Umanista si innesta nell’albero della tradizione giudaico-cristiana (che pretende di dare alla vita un senso, una direzione verso la salvezza), e inventa così la “Storia”, che è un tempo lineare e cumulativo, che ha un suo senso, come significato e come direzione verso una meta (e non è più “tragico”= senza un senso, come in altre culture). Responsabile della condizione umana in una dimensione del tutto nuova, l'umanista pensa di progettare con razionalità il proprio futuro: in questo è l'inventore della Filosofia della Storia, dell'Idea di Progresso e quindi della Modernità. Essere moderno vuol dire, in questa precisa accezione, vivere e produrre, e quindi sviluppare ogni tipo di conoscenza, per il miglioramento progressivo illimitato della propria condizione esistenziale. E anche l'arte deve collaborare a migliorare quest'uomo in progresso, quest’uomo perfettibile.

Questa “buona intenzione”, che inaugura nell’arte una nuova funzione sociale: l’arte per il progresso, produce enormi conseguenze, prime fra tutte l’intrusione pesante della razionalità filosofica nell’arte e la competizione dell’arte con il progresso della scienza (procedimento avanguardista).

Dunque, è con intelligenza e coraggio, e anche non senza presunzione, che l'uomo occidentale ha inventato l'Umanesimo. Ponendosi al centro di una piazza disegnata da Piero della Francesca, ha iniziato, come motore se non dell'universo mondo almeno della umana realtà, a progettare un itinerario tutto suo di salvezza, di ispirazione ebraico-cristiana, ma percorribile tutto nella vita terrena, affidandosi alla intelligenza razionale.

Idea affascinante e rivoluzionaria, ma, come si è poi visto, terribilmente rischiosa.

Le considerazioni critiche che seguono non vanno intese come condanna e sfiducia nella ragione e introduzione a un vaniloquio irrazionalista sull’arte (tant’è che alla ragione si affidano, nella consapevolezza che sono oggi così proponibili solo grazie alla epopea illuminista della tolleranza), ma solo come testimonianza sui malintesi che l’eccesso di ragione ha prodotto nella sua intrusione nell’arte.

L’eccesso di ragione è il Cogito cartesiano.

Ci si chiede, oggi, come è potuto accadere che questa Modernità, di cui sembravamo tanto orgogliosi, sia ora negata, e dalla teoria e dai fatti.

In verità, se due guerre mondiali, il declino dell'Europa, l'egemonia culturale del Pragmatismo americano, il tramonto delle ideologie, le anarchie del terzo mondo, l’errore dell'Unione Sovietica, la superficialità del consumismo ecc. ecc. ci confermano che nel 900 l'Umanesimo, che da più di 500 anni ci ha “illuminati”, ha cominciato a spegnersi, bisogna ben dire che ciò è già stato annunciato, ora con disperazione, ora con utopica febbre, ora nella invenzione paziente, ora nella palingenetica eversione, da 150 anni di arte dei procedimenti modernista e avanguardista dai tempi di Baudelaire e Rimbaud. E in molti suoi aspetti, e specialmente nell’intrusione in essa della razionalità, l’arte contemporanea denuncia l’avvento della Tecnica (razionalità fine a se stessa) come protagonista della storia al posto del Soggetto uomo, che era protagonista nell’Umanesimo pre-tecnologico.

Non è forse stato sufficientemente riconosciuto, nell'arte dei procedimenti modernista e avanguardista (che, pur essendo parte minoritaria dell'arte del 900, è pur sempre la parte più prestigiosa e appariscente), il lutto sottinteso per questo "declino travestito da progresso". Sembrava che quel procedere dell'arte fosse solo il bando festoso del "nuovo", quando in verità è stato (è) un "grido del naufrago" dalla semisommersa nave che affonda e che si chiama Modernità: che affonda, fra le sue vele d'utopia, insieme al Grande Motore: il Cogito cartesiano (1641).46

Il Cogito di Cartesio è il punto di arrivo del processo di razionalizzazione iniziato da Socrate e Platone. Socrate e Platone hanno rovesciato le concezioni dei precedenti filosofi materialisti (che consideravano l'origine nella materia indeterminata) ponendo l’origine, l'"essenza" dell'esistente nell’idea (eidos), che alla materia dà le forme di tutte le cose. La verità dell’essere sta nell’idea.

L’origine non sta più nella “madre” Natura, ma nel “padre” Verbo. Il potere del patriarcato maschilista ottiene legittimazione dalla razionalità filosofica. Lo “spirito” è eterno, dato a priori (Il Verbo delle religioni, l’Idea di Platone, lo Spirito di Hegel) ed è negato il principio genetico naturale (del mondo matriarcale) in cui invece lo “spirito” non è che lo stadio ultimo di uno sviluppo materiale e psichico: capovolgendo il processo, si è derivato il femminile dal maschile, Eva dalla costola di Adamo (tutto ciò è importante per il discorso sull’arte come conciliazione del femminile e del maschile, intesi non come differenza sessuale, ma come dominanti e stadi psichici).

In questa separazione tra idea e materia l’idea prende il sopravvento, in quanto nelle categorie razionali di forma e materia l'uomo può fare l'esperienza logica concettuale della realtà. 47 Così la ragione logica da allora domina la filosofia, "è" la filosofia: il logos (spiegazione logica) esclude il mythos (narrazione) dal processo di conoscenza, costituendosi in "metafisica". "...la prosa (la ragione) è poesia spogliata e inchiodata al letto di Procuste della logica (Bateson)". Così Socrate e Platone, inebriati dal piacere della logica, ne fanno la sophia, la spiegazione ultima. E con Cartesio questa razionalità giunge a identificarsi con la razionalità matematica, che include anche Dio.

Ora l’uomo moderno si rappresenta la natura a sua immagine, a immagine della sua razionalità matematica. Nel rapporto soggetto/oggetto il Soggetto è assolutamente privilegiato rispetto alla natura oggetto. Non si tratta più di dare alla “cosa”, che per se stessa esiste, un significato (oggettivazione della “cosa “ in oggetto nel conferimento di senso) ma di affermare che la “cosa” è così come io la rappresento, matematicamente misurabile. Per cui può essere calcolata, e perciò controllata e modificata. Il Soggetto diventa il “padrone” dell’oggetto, che non ha più valore per sé stesso, ma ora ha un valore determinato solo dal bisogno del Soggetto.

Nel Cogito l'uomo è uomo in quanto ragiona, e la sua esistenza è provata solo dal fatto che ragiona. Pensare è ragionare, secondo alcune regole logiche ecc., in una tendenza alla massima astrazione e universalità. Quest'uomo ha la coscienza massima del suo esistere nella astrazione della ragione, pensa di avere vinto la "deraison" che sta ai margini 48.

Dire, con Cartesio, "cogito, ergo sum", penso dunque sono/esisto, non vuol dire che se penso ovviamente non posso non esistere; che ogni volta che penso, anche se penso che non esisto, esisto; ma vuol dire che esisto, che "Io sono Io", veramente, solo in quanto penso nel senso di usare la ragione, ("tutto ciò che è chiaro è vero"). E quando faccio altro dal pensare (usare la ragione) non sono veramente Io. Per esempio, quando sono immerso in Altro dalla ragione: quando sogno o sono folle o drogato o fuori di me o ispirato o emozionato o innamorato o adirato o in estasi o in delirio di possessione, ecc.. O quando sono tutto nel piacere del corpo, perché secondo Cartesio la mente e il corpo sono separati.

E io sono dunque più Io quando ragiono di quando "sono fuori di me dalla gioia". E di quando faccio un’opera d’arte. E di quando sono in estasi nell’artisticità dell’opera.

L’uomo moderno si libera così anche dalla autorità di Dio e dell’Idea: la verità non è più la rivelazione di un Dio o Idea, ma una rappresentazione della ragione matematica, di cui la razionalità umana è fondamento. K. Jaspers: “Dio, che nel sistema cartesiano era servito soltanto alla forma pura dell’argomentazione, per scomparire quasi completamente nel contenuto complessivo, in seguito fu del tutto eliminato perché la ragione aveva ormai acquistato fiducia in se stessa, e perché in fondo, per una ragione assoluta, un Dio era fin dall’inizio del tutto superfluo.”49

Questa rappresentazione metafisica matematica del reale rende possibile la scienza moderna, ma dimostra presto il suo limite, per cui oggi si riconosce che la scienza non spiega affatto il reale, così com’è, ma è solo una delle interpretazioni possibili di esso: la sua interpretazione razionale matematica.

Tutto ciò ha portato nella storia dell'Occidente a due fatti rivoluzionari della Modernità: la preminenza del Soggetto e l'Idea di Progresso. Che sono poi quelle istanze che da più di un secolo sono messe in discussione. Perché l'identità dell'Io si forma, come anche la psicoanalisi ha insegnato, proprio nel rapporto con l'Altro (dalla ragione), e non per il fatto che uno razionalmente pensa "io sono io".

E’ dunque con quella razionale coscienza che l'uomo umanista della Modernità si è posto al centro del mondo, e si è costruito una visione antropocentrica del mondo, come Soggetto raziocinante, che ragiona, in piena coscienza, "in sé", e non "fuori di sé" nell’artisticità, nell’amore, nel bello, nel piacere, nella follia, nel delirio o in altro. Il mondo che circonda il centro è quindi misurato in questa dimensione raziocinante e matematica.

Nella prospettiva centrale rinascimentale, come simbolo della cultura umanistica, l'occhio (l'uomo) sta al centro dello spazio e lo domina: lo spazio non è percorso nell'accumulo del tempo, come è nelle città medievali, ma dominato tutto nello stesso istante dal "piano regolatore" (progetto assoluto).50

Ma altre culture non hanno questa concezione antropocentrica razionalista del mondo. Nella loro concezione del mondo l'uomo vi potrebbe anzi essere più "vero" nel delirio, quando posseduto dalla divinità, o inebriato dal vino, o comunque "fuori di sè" e "dentro il corpo". In altre culture l'uomo non è al centro, è lui stesso un margine in un mondo di margini, dove tutti questi margini hanno magari un rapporto fra loro di parità, senza gerarchia. Anche i "primitivi" in generale, pur avendo una mentalità antropocentrica nel senso di porre l'uomo al centro dei sistemi simbolici, concepiscono rapporti di parità e scambio, e non di gerarchia, fra i diversi sistemi (piante, minerali, morti, ecc) 51. Può anche darsi che ci sia un Dio unico a essere più importante, ma allora, quando è unico, Dio è fuori del mondo, e le cose, le sue creature, fra loro si equivalgono. Se invece è l'uomo razionale a essere al centro del mondo, è lui che determina una gerarchia delle cose del mondo. E in questa gerarchia alcune cose ingigantiscono, altre si perdono.

E' come se la luce della ragione illuminasse un cerchio di scena e perciostesso questa luce cancellasse nella penombra ciò che sta ai margini, tutto ciò che non entra nella luce della ragione (Kant: “...la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno...”). Nella sua centralità, il Soggetto "vede" solo ciò che lui stesso illumina della sua luce, e lo "vede" solo nel "colore" della sua luce (razionalmente, scientificamente, tecnicamente, misurabilmente, matematicamente). Con ciò il Soggetto "distrugge" ciò che è ai margini, ciò che non vede, ciò che non entra nella sua razionalità (è ”occultato”, verdeckt: Husserl). Il Soggetto si chiude così in un "cerchio di luce della razionalità" che diventa la sua prigione, in quanto gli è impedito di vedere oltre: di avere cioè contatto con l'Altro (dalla razionalità), che sono l'infinito, il "senso della terra", la natura, le origini, la Grande Madre, l’inconscio individuale e collettivo, la specie, la sessualità, l'amore, la divinità, la morte, la follia, il delirio, il piacere, il diverso, il mistero, il non misurabile. E il mistero della donna per l'uomo, e dell'uomo per la donna. L’erotismo. E l’esteticità.

E l'artisticità.

La sua centralità razionale separa il Soggetto sempre di più da quell'Altro dalla razionalità che è in tutte le cose, alterità che è ciò che invece, destando ogni volta lo stupore, rafforza l'identità dell'Io. E' l'oblio dell'Altro, l'"oblio dell'Essere" (Heidegger).

Se l'uomo è tutto logos, egli è come un aerostato che ha reciso il cordone ombelicale che lo lega alle radici e va in balia di se stesso. Mentre le radici stanno invece nel pensiero simbolico, nella immaginazione, di cui il pensiero razionale è derivazione, in un impoverimento di quel senso che è proprio delle metafore. 52

Così l'Altro, rispetto al quale l'uomo si identifica come Uomo, svanisce, e l'uomo perde l'identità.

Il concetto filosofico di Soggetto moderno (o soggettivismo moderno) è qui importante perché è quest'uomo come Soggetto il vero protagonista della crisi della Modernità di cui, in arte, sono sintomo e nello stesso tempo risposta i procedimenti modernista e avanguardista .

C'è un aspetto peculiare nell'agire del Soggetto moderno, che coincide con questo essere prigioniero della sua stessa luce: la progettualità, all'interno della Idea di Progresso. Tutto deve essere programmato, pianificato, senza alcuna improvvisazione nei cui varchi possa inserirsi l’Altro.

La scienza moderna si differenzia da quella antica appunto perché è ricerca progettuale (o pro-gettata, gettata prima). Nel progetto è già contenuto l'esito della operazione. Nella scienza moderna, tutta protesa a una progressiva matematizzazione, si studia la natura con un progetto a priori sulla natura 53. Per esempio, se si fa una ricerca scientifica sulla natura secondo la fisica matematica, ogni risultato non è che una interpretazione fisico matematica della natura 54. Ciò "...viene a significare che attraverso essa (la fisica matematica) e per essa è determinato in anticipo e in modo precipuo qualcosa di già conosciuto" 55. In altre parole non si ha una esperienza vera dell'Altro, dell'altro da sè Natura, ma solo una interpretazione di essa secondo un progetto a priori: nel "cerchio di luce" (fisico matematico) che illumina la Natura. "Così la doctrina medioevale come l'episteme greca non sono scienze nel senso della ricerca; ed é per questo che esse non conoscono l'esperimento" 56. "L'esperimento della scienza moderna non è soltanto un procedimento di osservazione più rigoroso e ampio, ma un procedimento di genere assolutamente diverso, consistente nella verifica della legge a partire e in vista di un progetto esatto della natura" 57.

La razionalità del borghese del “buon senso” è la prigione del soggetto umanista moderno, anche se gli dà strumenti per misurare e dominare la natura. E' una razionalità che misurando gli oggetti li riduce a quantità, togliendo loro l’attributo di esteticità, ciò che comunemente chiamiamo il loro mistero. Infatti nella vita gli oggetti possono essere usati, descritti, misurati, ma sono anzitutto sempre "estetizzati" (oggetti estetici9). Per tutta la sua lunghissima preistoria e storia l'uomo ha "estetizzato" gli oggetti, conferendo alla natura quegli attributi estetici (risonanze) che lo stupiscono e lo affascinano. "La sensibilità estetica non è altro che una capacità di meravigliarsi..." (Abhinavagupta, India, secolo XI°.58

E' certamente la natura per se stessa a stupire o spaventare o incantare l'uomo, ma la conservazione, la memorizzazione, la istituzionalizzazione di queste emozioni in attributi estetici, fanno cultura e tradizione, appartengono all'uomo. Perché sono queste emozioni, questi incontri/scontri con l'altro da sé estetizzato, enfatizzato, mitizzato, a dargli la gran parte della sua identità. Per sentire se stesso l'uomo non ha tanto pensato "io sono io", quanto "estetizzato" la natura e gli oggetti per viverli più intensamente, in eccesso, miticamente, nella sua continua lotta contro il tempo e la morte.


2. 3. La solitudine dell’Occidente. Il nihilismo.

Rincorrere lo stupore nella esteticità (e nella artisticità) non è prerogativa solo di artisti e artigiani, ma di tutti. Il bambino estetizza un uomo molto alto con stupore, facendone un "gigante", mentre l'uomo “normale moderno” (del buon senso) lo spiega con deficienze ormonali. Nel bambino lo stupore dura perché gli piace essere stupito. Ogni spiegazione rovina la festa del suo stupore, distrugge il fantastico che è in lui.

Si parla della ingenuità, se non peggio, dei "primitivi" di fronte alle cose: in verità essi vivono il mondo con la facoltà di stupirsi, che non è certo prerogativa dei bambini o dei malati di mente o degli artisti, ma della intelligenza della identità. Il Soggetto del buon senso razionalista riduce invece gli oggetti sempre a una sua immagine (egli è "misura di tutte e cose"), e così essi non riescono più a essere per lui un altro da sé che dà identità. Egli è ormai solo, con la sua tecnica che misura e domina il mondo, e in questa solitudine ("solitudine dell'Occidente") perde identità. Chiudersi infatti nel pensiero razionale come prigione può fare impazzire, cioè proprio "perdere la ragione" che è la madre di quel pensare. Uno "pensa troppo" quando non riesce più a uscire dalla troppo vigile coscienza razionale, che diventa allora una prigione totale.

Sartre: “Sono, esisto, penso dunque sono; sono perché penso, e perché penso? non voglio più pensare, sono perché penso che non voglio essere, penso che...perché...pua! Fuggo" 59

Per salvarsi dalla claustrofobia della logica ci sono le intuizioni dell'immaginazione. L'umanità lo ha sempre saputo, e per questo ha sempre tenuto in gran conto l'”essere fuori di sè" (éks-stasis) fino a istituzionalizzare questo “essere fuori di sé” in riti e comportamenti (dalle danze sacre al culto di Dioniso al carnevale). Uscire, essere "fuori di sè" è una purificazione dalla razionalità, che pur essendo un orgoglio dell'uomo è anche parte del suo "peccato originale".

Ma tutto ciò l'umanità occidentale l'ha da molto tempo quasi dimenticato, fino a perdersi nel "cerchio di luce della razionalità". Annulla il confine che separa e unisce lo "straniero" (lo xenos): quindi non riconosce, non ospita, non accoglie né il differente né il diverso: l’Altro. L’Occidente "democratico" è totalizzante, ingloba, annulla l'Altro.60

E la Tecnica porta questo processo al suo compimento.61

Dunque la solitudine è la perdita dell'altro da sé che dà identità. La perdita dell'Altro (dell'Altro dalla razionalità) è la solitudine dell'Occidente. Già il Cristianesmo, riducendo l’Altro a male e riservando a Dio tutto il bene, si è secolarizzato riducendo la religione a amministrazione delle sofferenze umane in attesa della salvezza. Ha così separato questo l’Altro come male, ne ha fatto il diavolo da tenere lontano dalla vita. Con ciò ha accompagnato l’avvento del razionalismo, dove il diavolo è il prerazionale che impedisce il processo razionale di salvezza affidato alla scienza e alla Tecnica. Il razionalismo rifiuta la dimensione tragica della vita dove l’Altro è sempre presente, e, non riuscendo a liberarsi dall'ansia cristiana della salvezza, trasferisce questa possibilità di salvezza nella vita terrena, nella razionalità della scienza e del suo progresso, e nella produzione di oggetti. E si chiude così nella solitudine, in una presenza claustrofobica del razionale, senza l'Altro.

Ed è per questa solitudine nella irrimediabile assenza dell'Altro, che l'arte, come Altro dalla razionalità, ha acquistato, nella filosofia dell’Occidente, proprio un valore di conoscenza dell’Essere, in una “nostalgia del paradiso perduto”. Ma ora la Tecnocrazia (capitalismo + tecnica) non solo distrugge nell’uomo il bisogno di artisticità, ma riduce anche l’estetizzazione della vita (il sogno delle avanguardie storiche di almeno tradurre l’artisticità perduta in vita: fare della vita un’opera d’arte) a pseudo-estetizzazione diffusa, uniforme, indistinta, indifferenziata, senza qualità, senza personalità, senza identità: e l’estetico, da porta di passaggio all’artistico nella evoluzione della coscienza dell’Io, regredisce a rituale consumistico61a E la quantità chiude ogni porta di accesso all’artistico.

La “globalizzazione dell’estetico”, o “estetizzazione globalizzata”, distrugge definitivamente l’arte, il più mirabile Altro che l’homo sapiens sapiens abbia saputo inventare, per esaltare la propria identità.

Poiché ormai a veramente segnare la possibile salvezza dell’uomo d’Occidente non è più il problema della tecnoeconomia nel pensiero razionale (che lo porta inevitabilmente a una mutazione antropologica dal sapiens in un altro ominide, eliminando alla radice il problema), ma quello dell’identità nel pensiero simbolico, la creatività come Altro che dà identità dovrebbe essere al centro degli interessi sociopolitici (mentre oggi, almeno in Italia, tanto per dire, l’Assessorato alla cultura è quasi sempre un incarico che si concede al candidato cui per motivi di poltrone partitiche si deve dare un posto, considerato decorativo e ininfluente). Il problema della creatività come Altro (e della creatività artistica in modo speciale) è ormai invece per l’Occidente, risolto quello della sussistenza, problema centrale della sua sopravvivenza.

Ma la globalizzazione (che è anzitutto interruzione del processo di invenzione di identità) è la malattia che oggi l’Occidente porta in se stesso. “La globalizzazione- scrive U. Galimberti sul quotidiano “La Repubblica” (20/6/2003 p.42), recensendo il libro “Power Inferno” di J. Baudrillard (R. Cortina, 2003)- è il degrado quando non l’estinzione di quello che gli illuministi chiamavano universalizzazione dei diritti umani, della libertà, della cultura, della democrazia. La globalizzazione, infatti, riguarda solo le tecniche, il mercato, il turismo, l’informazione. La sua espansione sembra irreversibile, mentre i valori universali sembrano in via di sparizione. (...) Non avendo più nemici, la globalizzazione li genera dall’interno come sua metastasi disumana. Incalzando ogni forma di singolarità, particolarità, individualità, identità e differenza, la globalizzazione genera il rigetto non soltanto della tecnostruttura mondiale che abolisce tutte le differenze, ma anche della struttura mentale di equivalenza di tutte le culture.”

Se ci si rende conto di questa condizione dell’Occidente, si può anche meglio capire perché gran parte del mondo islamico abbia terrore di esserne acculturato. Cioè distrutto, non tanto dagli eserciti e dalle bombe, quanto dal nihilismo devastante della nostra cultura. La risposta all’Occidente che ogni giorno cresce è quella dell’incontro con un altro da sé fortissimo, un Altro tanto altro dalla razionalità da rendere il suicidio (kamikaze) il massimo gesto della affermazione della propria identità. Molto meglio morire in un gesto di autoaffermazione, che essere disintegrato nei propri valori, nella propria identità, dalla acculturazione del nichilismo tecnologico occidentale

Prosegue il testo di U. Galimberti: “A dare scacco a un pensiero unico dominante non può essere un contro-pensiero unico (come quello dei no-global) perché, per la logica simbolica, quando ci si mantiene sul medesimo terreno di opposizione, ogni conflitto, così come si genera, si riassorbe. A dare scacco a un pensiero unico possono essere solo le singole particolarità di cui il terrorismo è una forma, la più violenta, che vendica tutte le culture particolari che hanno pagato, con la loro scomparsa, l’instaurazione di una potenza mondiale unica. Non si tratta quindi di un “conflitto di civiltà”, ma di uno scontro antropologico tra una cultura universale indifferenziata e tutto ciò che, in qualsiasi campo, conserva qualche tratto di alterità irriducibile”. Come appunto l’artisticità.

“Più che nelle armi tecnologiche dell’Occidente- prosegue Galimberti-, la cosa essenziale di cui i terroristi si appropriano, facendone un’arma decisiva, è proprio questo “non senso” che ciascuno di noi percepisce come negazione della propria individualità e specificità nella globalizzazione tecnico-economica del mondo. Altro che Bene contro il Male, altro che Occidente contro Islam. E’ nello stesso Occidente che si è creata una sorta di “insicurezza mentale” circa il senso della propria esistenza in un mondo economicamente e tecnicamente globalizzato che non ammette singolarità, individualità, differenze.” E di nuovo possiamo dire: che non ammette l’arte. “ Questa nostra insicurezza mentale, da cui nulla ci può difendere, è la migliore arma di cui dispone il terrorismo che, con i suoi attentati, precipita l’Occidente nell’ossessione della sicurezza, che è una forma velata di terrore perpetuo che si iscrive nei corpi, nei consumi, nelle abitudini, nelle pratiche di vita”.

E cos’è stato, se non la denuncia di questa crescente insicurezza esistenziale, il grido del procedimento modernista nei suoi 150 anni di vita? La sua grandezza sta proprio nell’esser riuscito a conciliare lo straziante gesto del lutto con la riuscita artistica dell’opera.

Il recupero profano (non sacro) dell’Altro dalla razionalità (il recupero della artisticità) vuole essere valorizzazione del pensiero simbolico e anche del pensiero razionale, nella loro reciprocità dialettica, e non certo mortificazione della razionalità stessa (cosa che purtroppo sta accadendo, v. procedimento postmodernista. Scrive G. Sartori 62: “...il clima culturale più reclamizzato dai media è di dare addosso al modello “elitista”, abietto e superato, dell’uomo razionale occidentale.... Certo è che per chi si occupa e preoccupa della democrazia è difficile predicare un anti-razionalismo o l’irrazionalismo.”). L’artisticità è la più mirabile sintesi di pensiero simbolico e razionale, del “femminile” del “maschile”.

Ma succede che la democrazia è ormai solo un'astrazione, il concetto di “cittadino” del pensiero razionale non riesce a trasformarsi in un simbolo del pensiero simbolico, in un Altro che dia identità. La democrazia non è sentita dagli individui al punto da essere per loro una realizzazione del sé.

Ognuno di noi è un uomo postmoderno, anche se non del tutto, e in differente misura.

In ogni occidentale convivono tre principali tipi di uomo: l'uomo cristiano (tradizionale), l'uomo umanista (moderno) e l'uomo postumanista (postmoderno).

A ben vedere, cristiano e umanista quasi coincidono, il primo essendo il figlio di un Cristianesimo secolarizzato e sedotto dalla razionalità classica, che ha abbandonato il sacro (l’Altro) per un mondanità imbevuta di moralismo e precetti, e il secondo essendo il figlio di una cultura che del Cristianesimo ha continuato e coltivato il progetto di salvezza, trasferendolo nella mondanità dell’idea di progresso. Ma della crisi profonda e forse irreversibile del pensiero escatologico del primo e utopistico del secondo, che implicano nel primo le fede nel Dio e nel secondo la fiducia in se stesso, solo l’uomo umanista (laico) sembra avere veramente coscienza. Ed è comprensibile, perché deve riconoscere e assumersene da solo la responsabilità.

E’ la solitudine di quest’uomo umanista che parla nel procedimento modernista. Non certo di un uomo autenticamente cristiano. Nonostante certe apparenze, non c’è niente di più estraneo all’arte della religione, in quanto la religione separa l’Altro (il sacro) dall’uomo, mentre nell’arte l’Altro (l’immaginario, l’inconscio, la memoria) partecipa con l’uomo alla creazione dell’opera.

Già nell’800 grande era l'inquietudine per il progresso, che non corrispondeva affatto alle aspirazioni dell’Umanesimo, e dove l'organizzazione totalizzante della razionalità tecnico-scientifica metteva già in difficoltà la libertà e l'identità dell'Io.

Secondo Jung l'Idea di progresso, come distacco dalla tradizione, ha indotto allo "sradicamento" della coscienza dalle istanze più profonde della psiche, a una "perdita del mondo" delle origini, di quel mondo inconscio, atavico e immaginifico che è la garanzia costitutiva antropologica “femminile” della "umanità" dell'uomo. Si produce così una prevaricazione da parte della coscienza razionale, per cui la spiegazione ultima delle cose viene ormai cercata solo nella fisicità del mondo esterno (metafisica della materia) attraverso la razionalità matematica della scienza e il dominio tecnologico.

Dunque questa coscienza razionale si trova disancorata, sradicata da quel mondo inconscio e costretta in una conoscenza razionale che diventa la sua prigione. In tal modo l'uomo moderno "entra senza accorgersene in un mondo di concetti, in cui i prodotti della sua attività cosciente sostituiscono progressivamente la vera realtà". 63

In questo progressivo essere "sradicato dal seno materno universale della primitiva incoscienza”, l’'altro da sé perde forza, si frantuma in una dimensione solo storica e così si relativizza: l'identità dell'uomo (che dall'altro da sé dipende) si fa debole e incerta.

Ci si comincia a chiedere se il soggetto uomo, così sicuro di sé, sia veramente qualcosa di affidabile e stabile su cui progettare un processo di progresso, o se non sia piuttosto soltanto un mutevole, inaffidabile prodotto di circostanze casuali e storico-sociali. Ma se così è, il cammino scende allora inesorabile, man mano che le tradizioni si indeboliscono, verso il nichilismo e l'anarchia del relativismo, dove tutto è consentito in quanto ognuno agisce secondo valori relativi che egli stesso può darsi.

E’ il momento della precarietà, dell’effimero, della caducità. E' il momento di svolta, in cui alla filosofia del Soggetto (uomo al centro del mondo dell’Umanesimo) si contrappone ormai, quasi come drammatica necessità ontologica, la "distruzione di ogni filosofia del Soggetto" 64

La filosofia e la scienza, pur nella consapevolezza della fragilità ormai costitutiva di ogni sapere, si sono poste e continuano a porsi quasi con disperazione questo problema. Ma il relativismo si è trasferito ormai nella vita e nella società, fino a essere spesso un compiacimento e un vizio. Nella impossibilità di un giudizio oggettivo sugli oggetti, è operante (oggettivo di fatto) solo il giudizio di chi ha il potere di imporre il proprio giudizio.

E ciò corrisponde appunto alla proposizione nihilista : "è 'arte ciò che gli uomini (che hanno il potere di farlo) chiamano arte". Proposizione “postmoderna” che il procedimento modernista ha sconfessato nel tenace perseguimento della riuscita artistica delle opere.


2. 4. La Tecnica

Che la Postmodernità sia una fase di crisi e di autocritica e di autoanalisi della Modernità, o proprio la fine della Modernità stessa e il passaggio a una nuova cultura, non sembra si possa ancora sapere. Ma certamente sta succedendo, e solo ora, l’affermazione totale del Capitalismo, non come antagonista del Comunismo (essendo ambedue ancora ideologie, cioè prodotti dell’Umanesimo), quanto come il volto immediatamente riconoscibile e ovvio di un più nascosto e inquietante “marchingegno”: la Tecnica.

Si intende per Tecnica (con la T maiuscola) la tecnica che da strumento per un fine diventa ciò che inventa il fine: cioè se stessa come fine. E quindi persegue solo il proprio potenziamento, la propria autorealizzazione, nel fare tutto ciò che si può fare.

Il Capitalismo è l’aspetto economico della Tecnica.

Il denaro è uno strumento tecnico per soddisfare un bisogno. Ma, aumentando a dismisura i bisogni materiali nel mercato, il denaro si rivela lo strumento tecnico per soddisfare qualsiasi bisogno. Ci si rende conto, a questo punto, che il bisogno più vero è diventato il denaro stesso, essendo sempre e comunque necessario. Allora il denaro non è più lo strumento, ma il fine: il denaro (capitale) deve anzitutto produrre denaro (più capitale, profitto). Ecco che il denaro da strumento tecnico è diventato fine: non altrimenti la tecnica come strumento è diventata la Tecnica come fine.65

La Tecnica è inquietante perché, da strumento dell’uomo per l’uomo, diventa ora un processo autonomo (di cui l’uomo perde il controllo) il cui unico è scopo è il proprio sviluppo e potenziamento, nonostante l’uomo. Di questo processo autonomo il Capitalismo è quella parte che, per i pochi del mondo producendo ricchezza, è per questi pochi rassicurante e risolutiva. Ma bisogna rendersi conto che di esso sono in verità rassicuranti solo i valori cristiani e umanistici che ancora riescono a controllarlo e governarlo, mentre nessuno sa ancora quanto sia sopportabile per la psiche dell’uomo la condizione esistenziale di nichilismo indotta dal totalizzante valore di scambio del mercato.

Il Capitalismo come espressione della Tecnica si chiama Tecnocrazia. Scrive E. Severino 66: “Insensibilmente, si sta andando verso un’epoca in cui il capitalismo, non avendo più come scopo primario il profitto, è capitalismo solo in apparenza, mentre in realtà è tecnocrazia, è cioè l’agire che si propone come scopo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, oltrepassando così la volontà “ideologica” di realizzare un certo mondo invece di un altro” .

Ecco come l’Idea di progresso umanistica (Utopia), che pretendeva di essere un fortissimo Altro un forte controllore della tecnica come strumento, si dissolve ora nella Postmodernità della Tecnica come fine senza controllo.

Quando in Occidente, partendo dai primi indizi in Protagora e Platone, l’uomo (il soggetto) si è promosso, con la sua razionalità, più importante di tutte le altre “cose” oggettivate in oggetti (di “tutto ciò che è”)67, e progressivamente ne è diventato il “padrone”, allora tutti gli oggetti hanno cominciato a ridursi a “qualcosa” solo in funzione del soggetto/uomo (e si è inaugurata la lunga stagione del Soggettivismo razionalista della cultura occidentale). Gli oggetti del mondo hanno cominciato a perdere il loro valore essenziale (anche superiore all’uomo, come altro da sé che dà identità) per acquisire un valore determinato soltanto dall’interesse mutevole dell’uomo nei loro confronti. Si sono instaurati dunque un “dominio” sugli oggetti della natura e una “produzione” di oggetti artificiali, che diventa “lavoro” come pratica tecnica della “volontà di potenza” (Nietzsche).

Gli uomini avevano sempre usato la tecnica come strumento per la produzione di oggetti, ma erano oggetti utili a una esistenza migliore perché erano sempre in rapporto con gli altro da sé più importanti dell’uomo (con l’Altro dalla razionalità), e pertanto anch’essi forti altro da sé. Tutti questi altro da sé, entità per se stesse oppure oggetti prodotti, avevano un forte senso per l’uomo.

Già nel tardo Medioevo la produzione di oggetti, con l'inizio della scienza e delle tecniche, era aumentata rapidissimamente, ma quelli erano ancora “oggetti importanti”, avevano ancora un senso e davano un senso (identità). Ma progressivamente da oggetti che hanno un intrinseco senso e quindi importanza, sono diventati oggetti che hanno perduto il loro intrinseco senso, e solo danno profitto. Infatti i nuovi produttori non potevano non porre la loro attenzione sul grande profitto che cominciavano a trarre da così tanti oggetti. Così i produttori hanno cominciato a porre più attenzione a quel profitto che all'oggetto stesso prodotto, al suo modo di produzione, alle sue qualità e funzioni sociali. La "qualità" dell'oggetto si è trasformata nella "quantità" (di denaro) cara al culto razionale dell'algebra e della geometria. Il denaro, essendo ormai l’unico e universale mezzo per raggiungere un fine, da mezzo è diventato un fine (Marx). 68

Ecco che allora il protagonista dell'operazione non è più stato l'oggetto prodotto (importante), come è sempre stato nei secoli degli artigiani, ma il profitto. Si è posta più attenzione sul fatto che un capitale investito produce, anzitutto e principalmente, più capitale, piuttosto che sul miglioramento degli oggetti. La quantità degli oggetti rendeva più appetibile il profitto, che dall’oggetto si ricavava, che la qualità dell’oggetto.69

Dunque se l’uomo, nella sua razionalità, si erge a ente più importante di questi oggetti altro da sé, essi perdono quella importanza, quel forte senso rispetto al quale l’uomo trovava prima la sua identità. E allora, più l’uomo perde l’identità, più egli cerca di recuperarla nella “volontà di potenza”, cioè in una sempre più spasmodica produzione di oggetti che possano essere sempre più importanti, che possano riavere senso per lui, e tutto ciò nella dimensione della quantità della razionalità della Tecnica.

Tuttavia questi “prodotti” non riescono mai ad avere tale importanza e senso da essere un vero altro da sé per l’uomo, per dargli identità.70 Sono solo espressione vana della sua razionalità (anche gli oggetti estetici testimoniali). Senza identità (“senza qualità”), l’uomo nihilista non è più in grado di controllare la tecnica come strumento, ed essa da strumento della sua “volontà di potenza” diventa essa stessa “potenza”, cioè Tecnica, che ormai si sviluppa da se stessa, nonostante l’uomo. Ed ecco allora il Capitalismo vincente, come modo economico della Tecnica vincente (Tecnocrazia).

Il Capitalismo è un virus disintegratore, nonostante le buone intenzioni dei suoi fondatori, che pensavano che l'"interesse" degli uomini (come insieme di "passioni innocue") potesse bilanciare e placare le passioni bestiali, violente e guerrafondaie. "Il commercio... raffina e rende più miti i costumi dei barbari, come ci è dato vedere tutti i giorni"71. E c’è ancora chi dice che, come distruttore dei confini e unificatore del mondo, sia positivo, e comunque irreversibile.

Invece l'uomo economico/capitalista si avvia a esercitare la sua egemonia totale, nella disintegrazione di ogni valore a valore di scambio in quella festa che si chiama Mercato. Per cui non si dà più una produzione in funzione del progresso esistenziale dell'uomo, ma invece una produzione in funzione della crescita del capitale. E ogni oggetto tende a essere, prima che un oggetto, un capitale, qualcosa che può produrre altro capitale, fino alla esasperazione contemporanea in cui si assiste anche al culto del corpo non per se stesso (in una dimensione estetica o di salute) ma come un "capitale bellezza". Non altrimenti del "capitale arte", che altro non è che il “capitale estetizzazione dell’ autore”.

Se la Tecnica (Tecnocrazia, Capitalismo) è prodotto della razionalità occidentale assunta a fondamento metafisico, razionalità che per controllare tutto riduce la qualità (non calcolabile) a quantità (matematicamente calcolabile), ogni dimensione dell’uomo fuori dalla razionalità (tutto ciò che appartiene al pensiero simbolico, il prerazionale, il sacro, l’inconscio, l’eticità, l’esteticità, l’artisticità, insomma l’Altro) viene emarginata se non distrutta.

In questo contesto l’operazione artistica, come Altro, è resistenza al dominio della Tecnica/Tecnocrazia. E se la Tecnica dovesse veramente essere il destino dell’uomo, come alcuni affermano, l’operazione artistica sarebbe destinata a scomparire, in quanto l’arte come qualità di artisticità contraddice la Tecnica (come fortissimo Altro).71a

Questa situazione in cui l’uomo contemporaneo viene sempre più indotto, dove gli oggetti non hanno più un valore d’uso fondato sul bisogno, legato quindi all’Altro dalla razionalità, ma solo un valore relativo di scambio all’interno del mercato, è il nihilismo.Ma l’arte come qualità di artisticità contraddice il nihilismo (come fortissimo Altro).

Da Ulisse ai Cavalieri medioevali che "vanno fuori di sé" nella foresta per rigenerarsi, dalla discesa agli inferi di Rimbaud alla "avventura nel Linguaggio" come ricerca di sé degli artisti del procedimento modernista, nell'avventura si misura l'identità: il coraggio, l'intelligenza, ma sopratutto l'intuizione nell'imprevisto sono l'esperienza (la misura) della identità dell'Io. Non c’è niente di più imprevisto e imprevedibile della riuscita artistica di un’opera.

Certamente anche l’arte (l’artisticità) è il prodotto di una tecnica. Ma l’artista è un uomo che ha un forte rapporto con l’Altro dalla razionalità, che appunto nell’arte si manifesta. L’artista è costitutivamente non-usato dalla Tecnica, è invece l’emblema dell’uomo che usa la tecnica come strumento. E quando un autore ha perso quel rapporto con l’Altro, non essendo allora artista, non riesce a produrre oggetti artistici, ma solo oggetti estetici e estetizzazione. Appunto tali oggetti sono espressione più della “volontà di potenza”, della razionalità dell’uomo nihilista, che dell’Altro. Così anche l’arte, una delle “oasi” che E. Jünger72 poneva ancora a difesa dell’uomo nel deserto del nihilismo, sembra inaridirsi.


2. 5. Il procedimento modernista.

Il procedimento modernista è allora la lunga e ingarbugliata agonia (lotta) dell’angelo contro il “marchingegno” nichilistico della Tecnica e del Capitalismo come Tecnocrazia.

Si è detto, nei capitoli precedenti, di come il mondo del senso comune, nella realtà e nei miti e nell’immaginario, sia sempre stato un altro da sé forte, tale da conferire all’uomo una identità altrettanto forte. Di come questo mondo venga negato dalla scienza, e diventi così meno credibile e affidabile e amabile, un altro da sé debole per una identità debole.

L’arte ha sempre amato, cantato, celebrato, “accarezzato”, anche nella critica più feroce e nel sarcasmo della satira, questo altro da sé forte che fa vivere, . Per cui non ha fatto altro che esaltarne l’esistenza, la consistenza, esaltando in ciò anche l’identità dell’uomo. Infatti nell’arte l’uomo ha sempre una sua grandezza, è sempre il Grande Protagonista, pur nelle sue debolezze o nefandezze. Da qui il grande prestigio che è sempre derivato agli artisti.

Ma quando questo mondo del vissuto, del senso comune dove l’uomo è il Protagonista, viene denunciato come bugia dei nostri sensi dalle concettualizzazioni della scienza, per cui perde la consistenza di altro da sé forte, sicuro, affidabile, degno di essere amato e espresso nell’arte, anche il ruolo e il prestigio degli artisti decade.

Il rapporto di fiducia in una realtà oggettiva (altro da sé forte) che era stato reso manifesto nella forma più grata, amorevole e ammirevole nell'arte storica del procedimento tradizionalista, si è incrinato; la realtà non è più sicura, conoscibile e raccontabile: l'amorevole gesto di carezza delle cose del mondo (narrazione delle cose del mondo), proprio di tutte le arti, anche nella caricatura o nella satira, non è, per molti Autori, più possibile.

La realtà non è più l’amica, nonostante tutte le avversità, cioè anzitutto la Grande Madre che per farsi “accarezzare”, narrare, ti conduce per mano essa stessa (in forma di Musa) alla compiutezza dell’opera. L’uomo è solo. L’Autore è solo. Flaubert: “Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove”.73 Mallarmé: “La chair est triste, hélas, et j’ai lu tous les livres”.74

Ma questa stanchezza e nostalgia e noia, questo sentirsi "postumi" di una gloriosa tradizione artistica che finisce, questo sentirsi alla fine di un grande viaggio in un presente che non ha più possibilità di partenze nonostante il "progresso", sono in definitiva il compendio delle impossibilità di essere se stessi: della perdita di indentità. E' il titolo di un quadro di Gauguin: "Donde veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?74a

E' appunto il tempo in cui Baudelaire e Rimbaud e altri inaugurano, nell'arte, il loro viaggio alla ricerca di un altro da sè, dal cui incontro si possa recuperare e reinventare l'identità, condizione assolutamente necessaria per poter creare opere d’arte. La loro grandezza è nell’idea di poter reinventare un nuovo altro da sé forte nella discesa agli inferi dell’inconscio individuale e collettivo. Così essi inaugurano il loro avventuroso viaggio verso l'ignoto. Rimbaud: "Si tratta di giungere all'ignoto attraverso lo sconvolgimento di tutti i sensi".75 E Proust: “Il lavoro compiuto dal nostro orgoglio, dalla nostra passione, dal nostro spirito imitativo, dalla nostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quel lavoro l’arte lo distruggerà, ci ricondurrà indietro, ci farà tornare agli abissi profondi dove quel che è esistito realmente giace ignoto”. 76

I possibili approdi del viaggio devono essere assolutamente ignoti. Se fossero già noti, lo sarebbero perché già progettati, e quindi sempre all'interno della prigione della ragione, "nel cerchio di luce della razionalità" e della progettualità. Solo l'ignoto può ormai presentarsi come vero altro da sé, l'Altro, al di là, al di sotto del relativismo culturale della conoscenza concettuale.

Se la scienza dimostra che il mondo del senso comune, del vissuto, è una “bugia” dei nostri sensi normali, si tratterà allora, per gli artisti, di narrare non più, o non solo, la realtà sensibile del senso comune, ma la scoperta/discesa nell’inconscio collettivo, universale, che è un altro da sé ancora più vero della conoscenza concettuale della scienza.77

Per narrare, al di là della esperienza sensibile del senso comune conscio, l’esperienza sensibile della “sregolatezza di tutti i sensi”, sono necessarie nuove idee e nuove tecniche. Sono necessarie per narrare l’esperienze dell’inconscio, eccitate o oniriche o drogate, comunque più prossime ai profondi archetipi formali della psiche. Le “figure” (pittoriche, musicali, letterarie ecc.) vengono “deformate” nella “sregolatezza di tutti i sensi”. Queste nuove figure, questo “nuovo”, è la narrazione della reinvenzione della identità.

“Nell’attesa chiediamo al poeta del nuovo, -idee e forme”. “Le scoperte dell’ignoto reclamano nuove forme”.78

L’inconscio “parla”. L’inconscio ora parla in modo più immediato di quello mediato dal senso comune. Parla incalzante nelle nuove figure che si vengono inventando, e si manifesta così come altro da sé forte. Molti artisti, fra i più grandi del 900, ritrovano in esso una identità, per poter ancora fare opere d’arte, e mirabili. A questo procedimento modernista si devono le opere dei più grandi autori del 900, Proust, Kafka, Debussy, Mallarmé, Cézanne, Klee, Pound, Eliot, Bacon, Picasso, Ravel, Joyce, ecc., ecc.

Poiché l’uomo è immerso nel Linguaggio (Heidegger, Lacan, Chomsky....), non può esprimersi (e pertanto vivere, come uomo invece che animale) che nel Linguaggio. Dunque l’inconscio è anch’esso Linguaggio: l’Altro (l’”ignoto”) è il Linguaggio.

Non si tratta allora più solo di narrare un’avventura (la vita, la realtà del senso comune) con una parte del Linguaggio (verbale, sonora, visiva, tattile, olfattiva, mobile...), ma di narrare la propria avventura nel Linguaggio. Che è come dire: l’avventura del Linguaggio stesso.

Nel procedimento modernista l’Autore narra la propria avventura nel Linguaggio, l’avventura del Linguaggio: il Linguaggio come avventura.

Il Linguaggio si presenta come il “mondo oscuro”, l’”Ombra”80, l’unico altro da sé potenzialmente forte con cui stabilire una distanza che instauri l’identità.

Per cui, inventare il Linguaggio, nuove figure del Linguaggio, è inventare, giorno dopo giorno, la propria identità, il proprio Io.

Per cui l’invenzione del “nuovo” nel Linguaggio è l’iniziazione a tutti gli Io possibili.

Per cui il “nuovo” diventa valore, come necessario urgente conferimento di identità all’Autore e all’interlocutore dell’opera (ma accanto sempre al valore di artisticità, in quanto solo la riuscita dell’opera è garanzia di autenticità).

Per cui, nel procedimento modernista, protagonista della operazione arte è sempre, come nel sistema antropologico dell’arte, la riuscita dell’opera (mentre, come si è detto, nel procedimento avanguardista il protagonista della operazione è la riuscita dell’autore, della società).

Rispetto al sistema antropologico dell’arte s’è detto essere sua prerogativa la narratività, essendo narrazione (l’arte è costitutivamente narrazione) di un altro da sé forte. Quando questo altro da sé si indebolisce, si indebolisce anche la possibilità della narrazione, e la categoria di narratività viene automaticamente messa in discussione.

Poiché questa narratività altro non è che il compiersi della coniugazione fra Mythos e Poiesis, cioè lo strutturarsi costitutivo stesso dell'opera d'arte, la messa in discussione della narratività (dovuta alla perdita dell'altro da sé forte da narrare) equivale alla messa in discussione della stessa opera d'arte, della stessa artisticità.

Allora il problema centrale del procedimento modernista (intorno al quale ruotano le ipotesi di innovazione o di morte dell'opera d'arte) è legato alla narratività. L'indebolimento della narratività equivale all'indebolimento della identità, così come l'indebolimento dell'identità equivale all'indebolimento della narratività. Fino a raggiungere il punto limite, oltre il quale c'è il silenzio: che è la non-identità.

Per non soccombere al silenzio, alla mancanza di identità, non rimane allora che inventare un nuovo altro da sé da narrare e che dia identità, cioè l'ultimo altro da sé possibile: appunto il Linguaggio stesso.

La ricerca del "nuovo", che era già una peculiarità dell'Umanesimo, e poi prepotentemente del Romanticismo, è sottoposta dunque nel procedimento modernista a una accelerazione tale da mutarne in parte la sostanza stessa: il "nuovo" diventa un valore. Il "nuovo" non è più un nuovo modo di raccontare che l'evoluzione del tempo e l'originalità di ogni artista comportano naturalmente81, ma oggetto stesso del racconto: il "nuovo" (nel Linguaggio come inconscio, l'Altro) è proprio ciò che l'autore vuole ed è costretto a dire, è parte del suo Mythos.

La narratività consiste ora anzitutto (ma ovviamente non solo in questo) nel raccontare l'invenzione della narratività stessa.

L'opera racconta anzitutto se stessa come “avventura linguistica”, e per l'autore qualsiasi tecnica o stilema, e autoriflessione, autoironia, citazione, montaggio, contaminazione, metafora metastorica antropologica ecc. ecc., hanno un perché nella formazione dell'oggetto artistico.

La pluralità degli stili o modi di formare (Pareyson), diacronicamente (es: Picasso) o sincronicamente, nella stessa opera (es: Joyce), in contrapposizione alla unità di stile del procedimento tradizionalista 82 sono la peculiarità operativa del procedimento modernista.

La "normalità" che ogni artista ha di avere uno stile unico, può diventare una prigione quando, nella esigenza di invenzione della identità, uno stile unico può diventare una forma parziale del sé, e pertanto falsa. Il modernista sembra fuggire dalla unicità e unità dello stile come da un se stesso incompleto e quindi non vero. "L'uomo è la sola creatura che si rifiuta di essere ciò che è" (Camus): per poter essere veramente, deve essere tutte le sue possibilità, le sue “spiritualità” (Pareyson). 83

Il formalismo di cui è stato accusato il modernismo con i suoi differenti modi di formare, è conseguenza della perdita dell'Io (identità) e ricerca di tutti gli Io possibili nelle nuove forme.

Che poi questa "invenzione del nuovo" venga tante volte giustificata da poetiche, teorie dell'arte, indottrinamenti ("concetti di servizio", 84) è il fatto più discutibile e anche meno nobile della grande "avventura". Perché dietro le invenzioni di alcuni che rispondono alle esigenze autentiche, si accodano le brutte copie di coloro che nell'ombra protettiva di concettualizzazioni reiterate nascondono la mediocrità. Il consumarsi sempre più rapido di tali concettualizzazioni, che susseguendosi vogliono delegittimare presuntuosamente le precedenti, è la dimostrazione di quanto si addica la mediocrità alle esigenze del mercato.85

Il Linguaggio, non più solo come strumento del narrare, ma ormai come inconscio assoluto 86, comprendente in sé la Poiesis e gli archetipi formali della Poiesis, si manifesta intensamente come forma. Da qui l'attenzione estrema dei Modernisti alla forma piuttosto che al contenuto, come sede privilegiata di ogni vera innovazione (e da qui l'accusa mossa ai pittori da un "contenutista" come Duchamp di essere dei formalisti gradevoli per il mercato). Certo i Modernisti, in questa estrema attenzione al Linguaggio come forma, tendono ai confini dell'arte, là dove la narrazione si estingue e l'opera rischia di annullarsi nell'artigianato o nel virtuosismo. Prima degli autori "sublimi" 87, ormai di fatto appartenenti più al procedimento avanguardista che al procedimento modernista (per la loro pratica di negazione dell'artisticità nell'utopia dell'arte pura) questa era stata la via percorsa, ma con la consapevolezza invece della necessità di raggiungere la riuscita artistica dell’opera, anche da scrittori modernisti come Flaubert, Mallarmé e Valéry. Scrive Flaubert nel 1852 88: "Quel che mi pare bello, e che vorrei scrivere, è un libro su niente, un libro senza appigli esteriori, che si tenesse su da solo per la forza intrinseca dello stile, come la terra si regge in aria senza bisogno di sostegno; un libro quasi senza soggetto, o almeno il cui soggetto fosse, se possibile, quasi invisibile".

Mentre il "nuovo" per l'avanguardista radicale è un fatto semiotico volutamente antiartistico, la tappa più avanzata, in un dato momento, di un progresso nel tempo verso il futuro dell'utopia (nel processo di negazione e poi dissoluzione dell'opera d'arte per una estetizzazione diffusa nel sociale), il "nuovo" per il modernista critico è un nuovo "modo di formare artistico", una tappa nella "discesa agli inferi" nel Linguaggio, nel tempo presente: " ...giù nell'ignoto per trovarvi del nuovo!". E deve essere un modo di formare (all'interno della debolezza del tutto) sufficientemente forte (cioè riuscito in opera d'arte) da costituire un altro da sè (che definisca l'identità dell'artista).

Il rigore costruttivo dell'Autore modernista, sempre attento, pur nella vertigine delle innovazioni, all'opera come narrazione (comunicabilità della musica) e alla riuscita dell'opera (salvaguardia della artisticità), impersonato mirabilmente in Schoenberg. Scrive E. Fubini 89: "Lo smantellamento dell'armonia tonale comportava l'abbandono di una struttura formale che garantiva l'ordine e la comprensibilità di ogni opera musicale, costituendone l'intelaiatura, la forma fondamentale. Per cui abolito questo tipo di costruzione, Schoenberg si era trovato di fronte ad infinite possibilità di combinazioni sonore, cioè padrone di una libertà illimitata o forse del caos. L'irrazionalismo del periodo atonale, cioè precedente all'elaborazione del "metodo di composizione con dodici note che sono in relazione soltanto l'una con l'altra" coincide con il periodo espressionista, in cui Schoenberg non si è ancora posto con rigore il problema della struttura logica e formale dell'opera musicale ed inclina verso una concezione mistico-intuizionistica della musica, tutto preso dalla esaltazione della libertà creativa del genio. Ma la sua seconda natura razionalistica e costruttivistica ricompare nella formulazione del "metodo di composizione con dodici note". Continua Fubini 90: "(Schoenberg) paragona nello stesso saggio, e in altri, la funzione della struttura vincolante del metodo dodecafonico a quella dell'armonia classica; la consapevole limitazione della libertà non significa altro che preservare la possibilità comunicativa della musica attraverso una base linguistica oggettiva". Possibilità comunicativa vuol dire essere narrazione, e solo così possibilità di essere opera d'arte.

Dunque Schoenberg considerava i modi armonia e dodecafonia mutevoli nel tempo (nel "transitorio" di Baudelaire), ma sempre in funzione della artisticità (l'"eterno" di Baudelaire). Ma si deve anche dire che in cuor suo pensava di aver fatto progredire l’arte musicale, se con presunzione scrisse: “E forse lei sa che io presumo di aver mostrato all’umanità le strade della creazione musicale per almeno cent’anni”.91

E' interessante ricordare che Webern, portando poi il modo dodecafonico alle estreme conseguenze, è arrivato a concepirlo come appartenente alla tradizione. "...la tradizione armonico-tonale rappresenta il fondamento per giustificare la validità del nuovo linguaggio. La dodecafonia si presenta nel pensiero di Webern come un allargamento del concetto classico di tonalità e non come una rottura con esso, un sistema naturale nello stesso e preciso senso in cui lo era la tonalità per i teorici del Settecento: la dodecafonia non è altro che l'utilizzazione di un numero più ampio di armonici". 92

Il procedimento modernista è così da un lato critica dell'ideologia del progresso in generale, e dall’altro negazione dell'idea di progresso nell'arte. Certamente per esso, come per il procedimento tradizionalista, l'arte non ha progresso. Gli autori modernisti sono i primi a riconoscere quanto sia fragile l'idea generale di progresso (la questione della separazione fra scienza moderna e arte, fra il "certo" progresso della prima e il"discusso" progresso della seconda, era stata posta per la prima volta nella "Querelle des anciens et des modernes" a cavallo fra seicento e settecento) perché sanno benissimo che la loro operazione arte si arricchisce di forme nuove, inedite, originali ma è nella sostanza priva di progresso. Per loro il "nuovo" nell'arte non fa parte di una teleologia progressiva di miglioramento verso una perfezione utopica dell'arte. Il fine dell’arte non è il progresso dell’arte, come è invece per il procedimento avanguardista. Non c'è per il modernista una meta, un "dove" andare dell'arte, che sia al di là della "la riuscita della singola opera". E non c'è un fondo nella discesa agli inferi del Linguaggio, se non l'origine. Ogni "invenzione del nuovo" è un ritorno all'origine, nella cui memoria sta l’immaginazione del possibile, di tutti gli Io possibili, di tutte le invenzioni del Linguaggio. Rimane a fondamento il testo di Baudelaire: "La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell'arte, di cui l'altra metà è l'eterno e l'immutabile". 93

Il procedimento modernista è dunque per gli Autori l’impresa enorme di inventare se stessi, un’impresa che comporta rivoluzionari mutamenti di atteggiamenti, rispetto al mondo e all'operare artistico.

La sociologia fa derivare questi mutamenti dai nuovi rapporti di produzione materiale instaurati in Europa e negli Stati Uniti dalla seconda metà del secolo scorso, che si concretizzano nello scadere del ruolo sociale dell'artista e nella formazione di un nuovo gruppo sociale: la massa. Rispetto ai linguaggi in generale, e a quelli artistici in particolare, la massa rappresenta indubbiamente un pubblico nuovo: ma esso è nuovo non perché usa le arti delle élites in modo diverso ("distratto”/Benjamin) da come le fruivano un tempo i cortigiani e il popolo, ma perché tende a essere l'unico pubblico, superando la dialettica fra cultura delle élites e cultura del popolo in un'unica dimensione media totalizzante. Pretende cioè, a differenza delle élites e del popolo, che accettavano il loro rapporto dialettico, di essere essa stessa tutto il potere ("democrazia") e quindi di produrre una cultura più che dominante, "universale". Già E. A. Poe (e accanto a lui Baudelaire) si era posto il problema di fare opere non solo con "novità" ("transitorio") e "permanenza" ("eterno"), ma con "individualità" e "universalità" tali da soddisfare tutti: “il gusto dei critici e quello della gente comune ... tenni sempre presente l'idea che la mia opera incontrasse un favore universale".94

La sociologia tende a spiegare l'"invenzione del nuovo" quasi esclusivamente come risposta alle esigenze di mercato nella nuova società di massa: il nuovo non sarebbe quindi che una espressione della cultura di massa stessa. Secondo W. Benjamin, Baudelaire si era reso conto che l'interlocutore (pubblico) tradizionale della poesia stava scomparendo e che solo un certo "nuovo" avrebbe potuto continuare a conquistarsi un pubblico non elitario ormai, ma di massa: "...egli si è reso conto per primo, e nel modo più ricco di conseguenze, che la borghesia era sul punto di ritirare la sua commissione al poeta".95 "Baudelaire ha avuto forse per primo l'idea di una originalità a norma di mercato, che- proprio perciò- era allora più originale di ogni altra (créer un poncif). Questa création implicava una certa intolleranza. (Baudelaire voleva far posto alle sue poesie e a questo scopo doveva scacciarne altre)"... "Insomma, le sue poesie contenevano particolari disposizioni per sconfiggere le concorrenti".96 "In Baudelaire il poeta rivendica per la prima volta un valore di mercato. Baudelaire fu l'impresario di se stesso".97 "La dissoluzione delle scuole poetiche, degli "stili, è complementare al mercato, che si apre davanti al poeta come pubblico".98 "La poesia di Baudelaire fa apparire il nuovo nel sempreuguale e il sempreuguale nel nuovo" 99

Tutto ciò è senz'altro vero, ma riduttivo, poiché la istanza sociologica non esaurisce certo la personalità di un artista, la importanza artitica di Baudelaire.

Altrettanto riduttive sono l'estetica di Lukàcs, per la quale il "nuovo" non sarebbe altro che il tentativo degli artisti (d'élite) di differenziarsi dalla produzione della nascente cultura di massa, e l'estetica negativa di Adorno, che considera il "nuovo" sia come funzione del mercato sia come resistenza elitaria al mercato, ma sempre allora prigioniero della logica capitalistica di consumo. Per Adorno l'arte può valere solo se mette in discussione se stessa (che vuol dire scambiare tutta l'arte contemporanea della "dialettica del nuovo" (e quindi il procedimento modernista) con il procedimento avanguardista).

Va invece messo in rilievo, nell'ambito sociologico e rispetto al mercato, il dramma che per questi Autori rappresenta il consumarsi del valore d'uso dell'oggetto artistico nel suo mero valore di scambio. Cioè il passaggio da una cultura tradizionale dove l'oggetto artistico, poggiando su salde tradizioni e assolvendo fortissime funzioni sociali (funzioni genetiche terze), esalta la sua funzione genetica seconda (narrare/interpretare una realtà considerata oggettiva) e con essa la funzione genetica prima (comunicare la propria artisticità) e pertanto il suo valore d'uso (il valore per cui l'oggetto è stato prodotto), a una cultura dove tutte queste funzioni vengono gradatamente meno, e dove quindi l'oggetto non può più essere giudicato per il modo in cui assolve quelle funzioni.

A rigore l'oggetto artistico non può più essere giudicato tout court, in quanto diventato inutile, in quanto senza funzioni.

Allora la valutazione di esso (il riconoscimento di artisticità) non può più essere, come prima, il più possibile funzionante secondo una tradizione (nella logica del riuscito/non riuscito) ma è affidata solo all'apprezzamento estetico soggettivo del pubblico di massa (nella logica del mi piace/non mi piace), che determina il mero valore di scambio della merce sul mercato.

Questa progressiva perdita della possibilità di un giudizio, che è il sintomo di una progressiva inutilità degli oggetti da essi prodotti, è il trauma più profondo causato dall'avvento della cultura di massa negli Autori modernisti, che nella riuscita dell’opera (e quindi nel suo riconoscimento, fondano l’identità.

Certamente sia la massa sia gli Autori si adeguano alla trasformazione continua dell'ambiente tecnologico, sempre più lontano dalla staticità dell'ambiente naturale. Certamente queste trasformazioni sempre più rapide provocano in principio effetti di straneamento e di alienazione; ma ci si abitua alla velocità come alla staticità, e anche la velocità diventa natura (con il fascino dei ponti di ferro, i treni, i piroscafi, i dirigibile, gli aerei ecc.). Non è quindi una questione di "paesaggi". Si tratta invece di una condizione esistenziale, oltre che sociale. In altre parole i "modernisti" sono "stranieri" non certo alla "nuova natura" industriale (macchine, navi, treni, aerei ecc.) ma a quella condizione umana che non consente, perché inaccettabile, la fondazione della identità.100

Come una parte della massa, pur inserita nel processo produttivo industriale capitalistico, ne denuncia, per mezzo delle organizzazioni sindacali e di partito, gli aspetti negativi, così questi artisti/intellettuali ne denunciano la mistificazione di fondo: l'ideologia positivistica di progresso. Infatti le nuove tecnologie cambiano, anzi dominano la natura, ma non cambiano in meglio la condizione esistenziale dell'umanità. Anzi, il nuovo uomo/massa già rivela ingigantiti i caratteri pericolosi del "branco", che, non molto più tardi, sfoceranno in tutta la loro autodistruttività nella acquiescenza del popolo tedesco (il più evoluto allora) alla ideologia e alla prassi naziste.

La percezione modernista dell'unità di stile come "prigione" si ricollega alle considerazioni sul progetto forte o debole, e a quelle sull'allegoria (W. Benjamin, NOTA..), S'è detto essere caratteristica del procedimento tradizionalista la tendenza al "ben finito" (specialmente nel classico), come conseguenza di un progetto forte che risponde al bisogno di sicurezza. L'unità di stile è vincolata a questo progetto forte.

Nel procedimento modernista invece, l'indeterminatezza della identità e la ricerca/invenzione di tutti gli Io possibili pretendono un progetto debole, se non addirittura una assenza totale di progetto, che permettano di intraprendere veramente l'avventura linguistica verso l'ignoto: di partire cioè senza prima sapere dove e come si arriverà, e se si arriverà. Questo procedere "improvvisando", questo work in progress, poggia sulla fiducia nel Linguaggio come altro da sè forte e, per molti, in fondo, ancora sulla fiducia umanistica nell'uomo: l'uomo, incamminandosi su una strada sconosciuta, a ogni nuova tappa potrebbe anche cambiare se stesso, insomma (perché no?) esistenzialmente ancora progredire. L'uomo quindi "si fa", in un processo libero, dall'esito imprevedibile. Egli si inventa facendo, oggettivandosi in opere appunto imprevedibili. Ma sempre tendendo alla riuscita artistica dell’opera.101

Il progetto debole, che è alla base del procedimento modernista, non esclude la progettualità, magari anche forte, delle singole parti, ma la imprevedibilità del tutto rimane un suo fondamento.

Nel progetto forte l'Autore immagina l'opera finita, nel progetto debole l'Autore intenzionalmente non vuole immaginare l'opera finita. Ciò che conta è non fiaccare il percorso creativo con un progetto forte che lo determini a priori, senza possibilità di una sostanziale trasgressione della tradizione. Il procedimento modernista è un processo "senza fine": così anche la singola opera può essere non finita e sfuggire alla ossessiva compiutezza del procedimento tradizionalista.

Da un punto di vista sociologico si tratta di una sfida al bisogno di sicurezza della borghesia. In questo senso viene interpretato da W. Benjamin nelle sue considerazioni sul barocco e sulla allegoria, dove, parlando dell’arte a lui contemporanea, la contrappone all'arte tradizionale come contrappone il barocco al classico. C'è nel barocco la "lamentazione": il presentimento della morte (nel barocco storico, della morte del classico; nel barocco modernista, della morte dell'arte tout court in una cultura nihilista di massa). Da qui l'eccesso, la libertà che ci si deve prendere contro il formalmente compiuto simbolo artistico102. Per Benjamin la rivalutazione della allegoria in opposizione al simbolo artistico sarebbe un gesto liberatorio contro la sicurezza inautentica della borghesia.

Ma occorre riaffermare che l'opera d'arte tende costitutivamente a essere riuscita, cioè compiuta, finita, "perfetta", organica, cioè a essere simbolo artistico (anche se è vero che il processo creativo, per conservarsi vitale e non fossilizzarsi in accademia, necessita continue trasgressioni). Possiamo allora considerare il barocco come una trasgressione, per cui, invece di raggiungere nel grande mare del fare la immobile catarsi del simbolo, si preferisce restare a nuotare nella dinamica, vitale, aggressiva allegoria. Ma è una contingenza. Può diventare un modello del fare solo se (come in Benjamin) il momento della catarsi esula dal compimento e riuscita dell'opera d'arte e si sposta (come fase di autonegazione dell'opera d'arte) nel compimento della rivoluzione sociale (ma si esce allora dall'ambito dell'opera d'arte per entrare nell'ambito della morte dell'arte del procedimento avanguardista). Solo in questa contingenza, per il compimento della rivoluzione sociale e come opera dell'avanguardia, l'arte può negare se stessa (e trova in questo il suo senso come per Adorno). Solo in questa contingenza deve essere non-compiuta (non deve essere simbolo) in quanto non deve, in definitiva, essere opera d'arte, ma solo testimonianza attiva del lutto presente in vista di una catarsi a venire (la rivoluzione).

Dice Adorno, in Dialettica dell'Illuminismo 103: "Il momento- nell'opera d'arte- per cui essa trascende la realtà è in effetti inseparabile dallo stile: ma non consiste nell'armonia realizzata, nella problematica unità di forma e contenuto, interno ed esterno, individuo e società, ma nei tratti in cui affiora la discrepanza, nel necessario fallimento della tensione appassionata verso l'identità." Se ciò può essere vero per il procedimento avanguardista, non vale per il procedimento modernista. Come il procedimento tradizionalista dell'arte storica, anche il procedimento modernista, (quindi in definitiva l'arte tout court) tende sempre alla compiutezza (per Adorno: unità di forma e contenuto). La trasgressione a questa tendenza, operata abbastanza sistematicamente all'interno del procedimento modernista non vale per se stessa, ma è una trasgressione funzionale alla "dialettica del nuovo", e comunque funzionale alla compiutezza dell’opera d'arte, nella salvaguardia della qualità di artisticità.

Dice ancora Adorno: " Solo nell'opera frammentaria, che rinuncia a se stessa, si libera il contenuto critico ((...)) l'opera d'arte compiuta è quella borghese, quella meccanica appartiene al fascismo, e quella frammentaria indica, nello stadio della negatività totale, l'utopia". L'utopia appunto della negazione dell'opera in vista di una catarsi rivoluzionaria sociale. Che è come dire: l'arte è tutta da sempre "borghese", l'arte può essere critica (non "borghese") solo rinunciando a essere arte, solo nella dimensione utopica di negazione di sé dell’Avanguardia. Ma con ciò si fraintende totalmente l'istanza del Modernismo, che rappresenta di fatto l'arte della "dialettica del nuovo" degli ultimi 150 anni.

Considerare l'arte della "dialettica del nuovo" in toto come generico avanguardismo della negazione dell'arte è il malinteso del 900.

Succede invece che l’innovazione, quando è finalizzata alla riuscita artistica dell’opera e non è gratuita, non può essere continua. Essa esige un così rigoroso impegno da parte degli Autori, da produrre in essi anche enormi stanchezze. Ne derivano, specie nei pittori, usi a produrre come in una catena di montaggio, periodi di grande decadenza. Moltissimi sono per esempio d’accordo nell’affermare che Picasso non ha prodotto nel dopoguerra opere degne di lui. “Guernica rappresentò il culmine della attività creativa dell’artista, il quale visse ancora trentasei anni producendo molte migliaia di opere. Per evitare questa lunga decadenza Marcel Duchamp, autore di dipinti celebri come il Nudo che scende le scale e il “Grande Vetro”, cessò volontariamente di operare in quanto artista, quando era ancora relativamente giovane. In altri casi, come quello di Giorgio De Chirico, l’artista esegue nella maturità vere e proprie repliche di quadri che lo hanno reso famoso, qualche volta retrodatandole.”104

Un’altra “corruzione” che vizia il procedimento modernista sono l’eccessiva concettualizzazione e teorizzazione, per l’incombere su di esso dell’ideologia di progresso, propria del procedimento avanguardista. Scrive Raffaele La Capria nel bellissimo libretto”La mosca nella bottiglia”: “Più la menzogna celebra i suoi fasti mediali e tesse i suoi eterei fili invisibili intorno al mondo, più si fa forte il bisogno di reagire e dire a noi stessi ogni volta la verità, senza mentirci. E può capitare, allora, che certe parole, sentimenti o condizioni che prima ci apparivano pacifiche, all’improvviso le vediamo rivoltarsi e assumere un aspetto imprevisto. Siamo portati perciò a sottrarle all’indistinzione in cui le avevamo lasciate e a rimetterle in discussione per restituire loro una carica e una funzione che tenevano nascosta o si era offuscata.

E così è stato il “senso comune”, che man mano mi sta rivelando la mia insofferenza intellettuale per tutte quelle forme e atteggiamenti del pensiero e dell’intelletto che dal senso comune si tengono lontani, e che ho definite concettualizzazioni improprie, perverse, o disoneste.

Perché una parola, un’espressione o una sensazione, può comportarsi come un elemento chimico che reagisce a una serie infinita di reltà, e fa apparire, anche quelle, diverse da come si presentavano prima.

Per farmi capire quanto è importante nella storia della pittura un quadro come Les Demoiselle d’Avignon di Picasso, Giuliano Briganti diceva che si può parlare di quadri a. D.d’A (ante Demoiselles d’Avignon) e quadri p.D.d’A. (post). Ma perché, gli domandavo -un po’ per provocarlo e un po’ per divertirlo col mio empirismo finto-ingenuo - di fronte a Les Demoiselles d’Avignon, non vale il semplice piacere della sorpresa estetica? Perché bisogna sottostare alla interferenza intellettuale e concettuale che si intromette tra lo sguardo e quel quadro, per emettere un giudizio ed ammettere un’emozione? Un po’ di stupido stupore in questa nostra epoca troppo ideologicamente e intellettualmente indottrinata non sarebbe opportuno, e anzi direi, indispensabile?

Così mi suggeriva il mio senso comune, che si va facendo sempre più imprudente.

E se Les Demoiselles d’Avignon rimanesse brutto, per noi, anche dopo che fossimo stati attrezzati a guardarlo?

Per il senso comune non c’è dubbio: quel quadro è bruttino. Ma mentre lo guardi, se pensi e poi ripensi alle intenzioni con cui fu dipinto da Picasso, a quel che significò nella storia della pittura contemporanea, alle conseguenze che produsse la sua apparizione, e agli altri quadri che da quello furono generati, forse ti ricrederai e lo troverai bello.

Bello? Si, bello. Esteticamente? Si, perché fa pensare a tutto questo. Ma che c’entra tutto questo con la bellezza?

C’entra, perché vuol dire che qualcosa si frappone tra te e quel quadro, qualcosa che non ha niente a che fare, se vuoi, col bello e col brutto, e tuttavia penetra il tuo sguardo e lo condiziona.

Ma la stessa cosa avviene quando io guardo qualsiasi dipinto, non solo Les Demoiselles d’Avignon. Quado guardo Giotto o Masaccio, Piero o Leonardo sempre c’è una interferenza culturale tra me e il dipinto che sto guardando. Non può essere altrimenti, perché il puro sguardo, innocente e insieme conoscente, non esiste.

E però quando l’interferenza, non direi culturale, ma concettuale è così grande, come nel caso di Les Demoiselles d’Avignon, quando è così sproporzionata e determinata, non introduce un’alterazione o una forzatura nello sguardo? Perché c’è una differenza tra la cultura visiva di un’epoca e di una civiltà, e quella particolare di qualche migliaio di iniziati capaci di vedere un certo dipinto attraverso la “teoria” (la pretesa concettuale) di un artista isolato, sia pure grande come Picasso. Una cosa è la cultura che accompagna il nostro sguardo posato su una tela di Ingres, di David, di Delacroix, e un’altra è la specializzazione, che ci vuole per amare visivamente Les Demoiselles d’Avignon. Specializzazione da indottrinamento, ma talmente assimilata da invadere ed alterare la sfera della sensibilità impoverendola più che arricchirla.

Cosa avviene in realtà? Qual’è quell’alterazione dello sguardo introdotta dalla specializzazione da indottrinamento? Accade che l’interferenza concettuale entra a far parte dei nostri sensi, si installa dietro l’occhio, nella retina, avviluppa il nostro nervo ottico, ed è capace di modificare tutto il nostro apparato visivo.

“Più che conoscere ciò che vediamo noi vediamo ciò che conosciamo”, diceva Goethe.

Ma fino a che punto è consentita, fino a che punto può arrivare questa interferenza concettuale mentre guardiamo un quadro? Fino a che punto distorce la visione o la “corrompe”, come diceva Tolstoj?

Questo tipo di interferenze dall’inizio del Novecento non si fa sempre più invadente? Non è presente dovunque? Non diventa sempre più imbarazzante? E più schematizzante?

Non ci costringe ad un “aggiornamento artistico” con scadenza settimanale, per cui quel che valeva lo scorso week end non vale più in questo?” (...) ”Allora devo rinnegare con tutti questi ragionamenti, il fatto, per molti evidente, che Les Demoiselles sono brutte nonostante tutto quello che si dice sul loro conto e nonostante che io sia convinto della funzione importantissima da questo quadro esercitata sull’evoluzione della pittura?”105

Questo argomento è stato affrontato, non certo esaustivamente (in quanto meriterebbe appunto prolungate discussioni) nel saggio “Tempo fermo”, nel primo numero di questa rivista. Ma un’altra domanda subito incalza: quanto ha influito sulla ossessionante ricerca di una “nuova arte”, di sempre nuove teorie e poetiche, in pratica di sempre nuova arte come istituzione, la consapevolezza in fondo di una banalissima mancanza di talento?

Una certa risposta la dà indirettamente l’ ”odiatissimo” Picasso, forse il più grande Artista pittore del procedimento modernista nel primo 900. E anche il più crudele, non per sua volontà, anche se il cinismo non gli faceva difetto, ma così, naturalmente, come è crudele la natura nella sua potenza. Già l’assunzione del cognome della madre Picasso invece del normale cognome paterno Ruiz, suggerisce in lui un ben motivato e determinato, anche se ancora forse del tutto inconscio, atto di devozione alla Grande Madre Poiesis, che “conduce per mano l’Autore” alla riuscita dell’opera. Il rifiuto della “mediocrità” del padre è anche il rifiuto della “mediocre”, razionale e maschile106 ossessiva ricerca di teorizzazioni, giustificazioni di nuova pittura, di nuova arte ecc. di tanti suoi contemporanei. Dice (1935): “Io non cerco, trovo”. Egli “mangia” (come personificazione della Grande Madre) le affaticate idee del maschile, e le metabolizza nel talento, non altrimenti di quanto fa la Natura stessa (Grande Madre) che mangia e nello stesso tempo nutre (crea). Sessualmente maschio come persona, Picasso è invece femminile come Artista, Grande Madre divoratrice delle farneticazioni intellettuali del maschile.

Al polo opposto sta un Autore come Kazimir Malevic107, razionalista e maschile (“mediocre”), che, dopo aver affermato: “Nel suprematismo non si può più parlare di pittura. La pittura è stata superata da tempo, e il pittore è un pregiudizio del passato”, e dopo essere riuscito a inventare, con grande sforzo intellettuale, un “quadrato nero su fondo bianco” (1915, che è solo atto di protesta del procedimento avanguardista), finì la sua carriera nel 1933 con un brutto quadro realistico “Autoritratto come principe dei pittori”. Tanto maschile da essere coautore nel 1913 (con lo scrittore Krucenych e il musicista Matyusin) dell’opera “Vittoria sul sole”, dove, imprigionate le donne e sconfitto il sole, si instaura il regno dell’”Uomo forte” tecnologico e antinatura. 108

Dunque all’origine del procedimento modernista c'è stato questo drammatico smarrirsi (indebolimento) della identità, che deriva nella società moderna dall'allontanamento dell'uomo dal naturale (garanzia di altro da sé forte) verso l'artificiale nel frenetico, impetuoso avvento della Tecnica e del "progresso". Perché allora il procedimento modernista è la più esaltante e significativa esperienza dell'arte contemporanea? Perché, nella "metamorfosi quotidiana delle cose", il Modernista, testimone del caos, tende a salvaguardare l'opera d'arte come ultimo, irrinunciabile vincolo con l'"eterno" (Baudelaire). E in questa salvaguardia è costretto a mostrare, a palesare in eccesso il funzionamento stesso della macchina opera d'arte: il Modernismo è la febbre di una malattia che investe la coniugazione di Mythos e Poiesis.

Ora il Mythos è fragilissimo: un Io, una personalità, una identità che si inventa ogni giorno. Questa coniugazione, che nell'arte storica è un "lavoro" (Michelangelo: "una infinita pazienza") è ora una "avventura", una pericolosa affascinante avventura. Le parole di Baudelaire: "La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell'arte, di cui l'altra metà è l'eterno e l'immutabile", si addicono in verità a tutta l'arte storica (procedimento tradizionalista), dove il contingente maschile del Mythos abbraccia e si eternizza nell' eterno femminile della Poiesis. Solo che ora, e per questo le parole di Baudelaire sono puntuali, il "contingente" si è fatto drammaticamente "transitorio", "fuggitivo" fino allo spasimo. Per cui quella coniugazione diventa una operazione febbricitante, spesso eccessiva, a volte eroica, al limite" sublime" fino al suicidio dell'arte stessa.

La grandezza degli Autori modernisti in generale sta in questo impegno a fare opere d'arte all'interno di una cultura nihilista, operazione molto difficile e contraddittoria, che si risolve nel "porre le regole del gioco mentre si gioca", e pertanto esposta a ogni errore e impostura. Ciò deriva dalla estrema difficoltà di dare alle opere, in un simile procedimento senza tradizione, un riconoscimento di artisticità che pretenda di essere funzionante. Ma la difficoltà di un giudizio su un oggetto dimostra anche l'incertezza sulla sua utilità e funzionalità, per cui la difficoltà del riconoscimento nel procedimento modernista (e in quelli avanguardista e postmodernista), non fa altro che confermarne la precarietà, e la pertinenza, rispetto ad essi, di un discorso sulla morte dell'arte come artisticità. E il giudizio dei posteri, tanto caro agli autori antichi, in quanto godevano della convinzione delle durata delle opere in un futuro "fedele", diventa ora quasi inimmaginabile, per la probabilissima "infedeltà" del futuro in un mondo di grandi trasformazioni.109 Ecco allora che al posto del giudizio dei posteri può interessare il "giudizio dei predecessori" e guardare indietro alla storia e alla psicogenesi delle arti, alla loro "eternità" antropologica, può servire a giudicare le proprie opere in rapporto a quelle, e a rivalutare, pur all'interno del processo della "dialettica del nuovo", l'importanza della tradizione in una dimensione più antropologica che storica.

Nietzsche: "Tramonto dell'arte. Come nella vecchiaia ci si ricorda della gioventù e si celebrano feste della memoria, così l'umanità sarà presto, rispetto all'arte, nel rapporto di un commovente ricordo delle gioie della giovinezza".

9 agosto 1944. I muri di Parigi occupata dai tedeschi si coprono di manifesti della Resistenza che invitano alla insurrezione. Dicono: "VIVE PARIS INSURGE'......C'est dans une Capitale dejà libéré par le Peuple de Paris che doivent entrer les blindés Américains....." Così è stato. Ma poi gli Americani arrivano. L'Europa entra nella Postmodernità.
Da allora tutti nel mondo vivono nella Postmodernità, cioè nella egemonia culturale americana.


Fonte: http://www.arteadesso.net/renato_calligaro/index.htm